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Il pasticciaccio

Referendum. La posta in gioco per il 25/26 giugno / Una riforma necessaria ma troppo affrettata, che rischia di consacrare un nuovo centralismo municipale.

di Maurizio Regosa

Non sarà una rivincita e nemmeno una riperdita. Sarà per tutti, e più semplicemente, una consultazione popolare su un tema delicato, spinoso e molto importante: la riforma costituzionale.
Con il referendum confermativo del 25 e 26 giugno, milioni di elettori (compresi gli italiani residenti all?estero) dovranno dire Sì o No alla riforma.
Volute (e votate) dal solo centrodestra, osteggiate dall?allora opposizione e da una nutrita schiera di costituzionalisti, le modifiche alla Parte II della Costituzione del 1948 hanno suscitato molte critiche per il merito e il metodo. Una riforma così rilevante, si è detto, non doveva essere fatta da una parte sola. La legge però ora è da approvare o respingere e dato che è bene che sulle riforme (come sui figli) non ricadano le colpe dei padri, proviamo a guardare il testo al di là degli schieramenti (ora più fluidi) e delle contrapposizioni (anche quelle adesso molto meno rigide).

Prendere o lasciare.
Sì, ma cosa?

Ai cittadini, insomma, non spetta che prendere o lasciare: la riforma sarà promossa o bocciata in blocco. Una sola scheda, moltissime novità. A cominciare dal ruolo del Presidente della Repubblica (che diventerebbe «garante della Costituzione dell?unità federale della Repubblica»), dal peso del premier (eletto direttamente dal popolo e con facoltà di sciogliere le Camere) per arrivare alle due Camere (dei Deputati e del Senato federale, con compiti almeno in parte diversi) e alla partecipazione (ma senza diritto di voto) dei rappresentanti delle Regioni e degli enti locali al Senato.
L?articolo senza dubbio più controverso è il 117, relativo alla devoluzione, brutta parola per attribuire competenza esclusiva alle Regioni in materia di assistenza e organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica, polizia amministrativa regionale e locale.

Il solco è tracciato,
difficile cambiare strada

Cosa cambia per il non profit? Lo abbiamo chiesto a Carlo Borzaga, studioso dell?impresa sociale e preside di Economia alla facoltà di Trento. «Non credo molto. Le leggi complessive – quelle sulle forme giuridiche – e alcune sperimentazioni sono state realizzate dal livello nazionale, ma il non profit la gran parte dei rapporti li ha con le amministrazioni locali. Il non profit per tradizione e storia, per natura dei servizi tende a operare su scala regionale o locale. Non cambierà quindi molto. Si continuerà su un solco già tracciato per quella parte di servizi sociali o sanitari che devono essere finanziati dalle amministrazioni locali. Semmai ci può essere un problema diverso». Quale? «La Regione sostituisce lo Stato e quindi avendo più competenze potrebbe dar luogo a un ?centralismo regionale? che potrebbe soffocare gli enti locali o addirittura a una forma di ?statalismo dei municipi?». «Il pericolo», prosegue Borzaga «è di vedere Regioni e amministrazioni locali concentrarsi nella gestione diretta dei servizi, magari attraverso fondazioni. I Comuni e le Regioni hanno queste competenze e non altre. Se vogliono far vedere che esistono e contano, l?unico modo è quello di tornare a essere attori diretti nella erogazione dei servizi. Sono più forti sul piano politico e amministrativo, hanno competenze più chiare, potere più netto. Con la devoluzione fiscale, si rafforzeranno le tentazioni pubblicistiche».
I critici della riforma affermano che avremo 20 diversi sistemi sanitari. Cosa ne pensa? «Già oggi è così. È la vecchia questione che riguarda i diritti teorici e quelli esigibili. Il sistema di welfare tradizionale genera alcuni diritti teorici, che però sono diritti la cui esigibilità dipende da come i territori si organizzano per rispondere. Non sarei preoccupatissimo. Già ora servizi sociali e sanitari sono diversamente esigibili a seconda dell?impegno delle amministrazioni locali. Al di là della teoria, anche adesso nel Mezzogiorno alcuni diritti non sono esigibili».

Devoluzione,
ma quanto ci costi?

Altro argomento dei sostenitori del No è quello economico. Venti sistemi sanitari regionali faranno esplodere i costi. Sarebbero inoltre incoraggiate le differenti politiche regionali (ma già in Piemonte la spesa socio-sanitaria arriva al 67,6% del bilancio di previsione 2005, mentre in Basilicata è ferma al 33,6%).
«È probabile che le Regioni sbrachino», spiega Borzaga, che aggiunge: «Se hai le competenze ma non hai chiaro il quadro delle risorse e le risorse arrivano comunque, tenderai sempre a sbracare. I bisogni sono praticamente illimitati e la pressione è molto forte. Il decentramento è un fatto positivo e va fatto in alcuni campi (ad esempio la gestione del mercato del lavoro) ma il federalismo fiscale condotto a metà è pericolosissimo».

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