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Il pandoro gate farà bene al fundraising, parola di Selvaggia

Al Festival del Fundraising, Selvaggia Lucarelli strappa gli applausi degli addetti ai lavori. Il modello made in Ferragnez punta sulla beneficenza a scopo reputazionale e il suo inciampo può essere una fortuna per il Terzo settore perché «ha mostrato a tutti che la mancanza di mediazione nelle raccolte fondi è pericolosa». La reputazione (e i suoi problemi) a tema anche dell'incontro con Andrea Barchiesi

di Sara De Carli

Benvenuti nell’era della reputazione, che vi piaccia o no. È uno dei messaggi che arrivano forti dal Festival del Fundraising in corso a Riccione: un appuntamento vivace, interessante, con tantissimi fundraiser e organizzazioni alla loro prima volta (ed è un buon segno). Sei mesi dopo il “pandoro gate”, con le ripercussioni sulle donazioni che tutto sommato non sembrano essere state particolarmente impattanti, alle organizzazioni non profit e ai fundraiser resta tra le mani un oggetto incandescente: la reputazione e come gestirla. Quella della propria organizzazione (ed è già tanta roba), ma anche degli influencer e benefattori che vi si avvicinano (e diventa tantissima roba). Erano due gli appuntamenti del Festival dedicati a “tirare le somme” del caso Ferragnez: quello con Selvaggia Lucarelli, in libreria con Il vaso di pandoro e quello con Andrea Barchiesi, esperto di digital reputation.

Tutti hanno visto i pericoli della disintermediazione

In fila per entrare all’evento (affollatissimo), qualche commento perplesso si sente. “Ma tu che ne pensi?”. “Ma a te lei piace?”. “Dice anche cose vere, senza dubbio, ma i toni e i modi… non sono i nostri”. Alla fine però Selvaggia Lucarelli ha convinto i fundraiser d’Italia. Oltre a quelli di rito, infatti, strappa diversi applausi spontanei, convinti. Il più grande quando dice che l’inciampo del modello di beneficenza made in Ferragnez può essere una fortuna per il Terzo settore, perché «ha mostrato alle persone che la mancanza di mediazione nelle raccolte fondi è molto pericolosa».

Aprendo l’evento, Valerio Melandri – fondatore del Festival del Fundraising – aveva elencato le cinque ragioni per cui doniamo non solo poco, ma male. In particolare, ha ricordato Melandri, «il 76% degli italiani si concentra sui costi dell’organizzazione, che è una domanda sbagliata, inutile e che produce cattiva informazione, mentre solo il 6% fa la vera domanda, quella sul risultato che produrrà la mia donazione». L’altro tema è quello che il “pandoro gate” ha non scoperchiato, ma portato alla ribalta: doniamo male perché ci fidiamo più delle persone che delle organizzazioni. Che la disintermediazione non andasse considerato come un upgrade della raccolta fondi, Melandri in passato lo ha già detto un’infinità di volte: forse ora il pandoro gate ha mostrato definitivamente quanto sia anche un boomerang.

È Paolo Ferrara, direttore generale di Terre des Hommes Italia, a introdurre sul palco Selvaggia Lucarelli. Lui racconta di averla coinvolta in alcuni viaggi per visitare progetti della sua organizzazione e che «ha viaggiato senza neanche rimborso del volo o dell’hotel». Lei parla dell’esigenza di uscire dalla sua «bolla di privilegiata» e dice che «non voglio i rimborsi perché mi sembra di privare un ente di risorse. È come se mi invitassero a raccontare ciò che fa una mensa dei poveri e andandomene portassi via due pentole piene di cibo e il servizio dei piatti».

La beneficenza come macchina reputazionale

Lucarelli va indietro fino al 2010 per rileggere l’arco delle azioni di beneficenza dei Ferragnez. «Il modo in cui personaggi con una visibilità così grande fanno beneficenza “insegna” anche agli altri come si fa beneficenza, oppure al contrario può essere una pessima “mappa” su come non si fa beneficenza», dice. E che cosa hanno sdoganato i Ferragnez? «Il fidarsi in modo acritico della beneficenza fai da te, quella per cui doni direttamente all’influencer, che però non ha esperienza di Terzo settore e che quando ha fra le mani il denaro raccolto non sa cosa fare… E quindi che fa? Quando non c’è dolo lo distribuisce male, quando c’è dolo magari se lo intasca». Nel caso Ferragnez «la beneficenza aveva soprattutto uno scopo reputazionale. Essere benefattori serviva a maturare un credito di riconoscenza da parte della società, per aggiustare inciampi reputazionali».

La beneficenza serviva a maturare un credito di riconoscenza da parte della società, per aggiustare inciampi reputazionali

Selvaggia Lucarelli

Lo smacchiatore di Chiara e il “Poverty Safari” di Fedez

I Ferragnez spesso hanno «usato la beneficenza come macchina reputazionale» e molte volte ha funzionato, racconta Lucarelli. Come quando all’indomani dell’uscita dell’inchiesta giornalistica di Lucarelli sul “pandoro” – parliamo di un anno prima della multa dell’antitrust – «Chiara non ha spiegato l’operazione, ma ha usato la beneficenza per “pulire la macchia”, annunciato che avrebbe donato a Dire il suo cachet  di Sanremo». O quando Fedez, ricorda ancora Lucarelli, inaugurando il suo canale Twitch ha invitato i fan a fare una donazione, raccogliendo 5mila euro: «A quel punto lui fa il “Poverty Safari”», ossia «sale sulla sua Lamborghini accompagnato da un ragazzo che lo riprende e inizia a girare per Milano con questi 5mila euro, andando a caccia della “bestiolina povera” a cui dare mille euro. Ferma il rider di colore, il senza dimora, la dipendente di McDonald… per lui è tutto uguale». Un giornalista australiano – racconta Lucarelli – ha definito i personaggi ricchi e in vista che mettono in atto questa dinamica «come “parassiti delle disuguaglianze”: hanno bisogno dei poveri per inscenare questa spettacolarizzazione della beneficenza».

Chi ci guadagna

Le inchieste della Lucarelli sulle magagne delle raccolte fondi, quindi, fanno bene o male? Perché se da un lato la trasparenza fa sempre bene, allo stesso tempo le persone generalizzano e guardano con sospetto a tutto il mondo delle donazioni e della beneficenza. «L’inciampo dei Ferragnez è in qualche modo prezioso», dice Lucarelli, «questa vicenda può far capire alle persone che la mancanza di mediazione nelle raccolte fondi può essere molto pericolosa». Perché la fascinazione per la disintermediazione esisteva già prima di loro e a prescindere da loro: «La gente da tempo tende a fidarsi della persona fisica più che della organizzazione. C’è anche chi ha ricordato quanto si debba diffidare delle grandi associazioni, che “raccolgono cento e donano uno”. C’è un substrato culturale». Fa bene al Terzo settore «il sottolineare il rischio della beneficenza fai da te, il ricordare alle persone che in quelle donazioni non si ha più alcun controllo del denaro, mentre le donazioni che arrivano a una organizzazione è soggetto ad una infinità di controlli», replica Lucarelli.

«E fa bene pure esplicitare che quando fai una raccolta fondi su una piattaforma, vedere la cifra che sale è una cosa che gonfia il tuo ego, come con i like. Per chi si improvvisa benefattore e lancia una raccolta fondi c’è un beneficio, nell’ego e nella reputazione: la beneficenza serve anche a dare smalto. Questo va detto alle persone. Dobbiamo abituarci a chiederci qual è il vantaggio per il benefattore, spesso tra il vantaggio per il beneficiario e il vantaggio per il benefattore c’è una sproporzione così grande che dell’operazione c’è da dubitare a prescindere».

Dobbiamo abituarci a chiederci qual è il beneficio per il benefattore, spesso tra il vantaggio per il beneficiario e il vantaggio per il benefattore c’è una sproporzione così grande che dell’operazione c’è da dubitare a prescindere

Selvaggia Lucarelli

Niente fango sul personal fundraising

Dalla platea è Niccolò Contucci – fundraiser dell’Anno 2022 – a ricordare che moltissime organizzazioni stanno sviluppando azioni di personal fundraising, attivando singole persone che chiedono al loro network di donare. «È una nuova leva della raccolta fondi, che non esisteva», sottolinea. L’approccio è completamente diverso, ma gli strumenti per le donazioni sono gli stessi: è fondamentale che la narrazione sappia restituire questa specificità e che “schizzi di fango” non arrivino invece a loro, ai tanti personal fundraiser che si attivano per le nostre organizzazioni.

Dall’era della comunicazione all’era della reputazione

In mattinata l’incontro con Andrea Barchiesi aveva messo a tema proprio il passaggio dall’era della comunicazione all’era della reputazione, approfondendo le differenze tra reputazione e notorietà, le relazioni tra reputazione e fiducia, il fatto che la reputazione sia asimmetrica, atemporale, sistemica: che ci piaccia o no, di nuovo, la crisi che colpisce uno, colpisce tutto il sistema. La reputazione è «una licenza sociale ad operare», ha sottolineato Barchiesi, mettendo in guardia dal pensare che l’impatto del “pandoro gate” sul non profit sia passato e invitando le organizzazioni a rafforzare la propria preparazione sulla gestione di una crisi reputazionale, «perché il silenzio in questo contesto non paga, l’unica carta è essere pronti prima» e per il Terzo settore è stata una grandissima occasione mancata, nel momento caldo della crisi, non aver rimarcato la propria differenza.

Smettiamo di pensare a quello che dobbiamo comunicare domani: quello va fatto ma è tattico. Strategico è rivedere e ripensare tutto quello abbiamo detto e si dice di noi. Il nuovo modo per costruire reputazione è quello

Andrea Barchiesi

Tante le domande. Sconcerta il fatto che la crisi reputazionale «ha a che fare molto più con la percezione che con l’oggettività del fatto, è cessato il nesso causale, è la percezione che guida il risultato, non la realtà» e che «nella crisi reputazionale il brand da soggetto parlante diventa oggetto del parlato e quando è oggetto smette di essere credibile perché è di parte».

Piace il consiglio, concreto: «Nel mondo digitale tutto resta, lo sappiamo. Non c’è più lo scorrere del tempo, il criterio con cui i contenuti emergono è la pertinenza. L’era della comunicazione si basava sui contenuti, ma dobbiamo smettere di pensare a quello che dobbiamo comunicare domani di noi: quello va fatto ma è tattico, non strategico. Strategico oggi è rivedere e ripensare tutto quello abbiamo detto e si dice di noi. Il nuovo modo per costruire reputazione è quello».


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