Cultura

Il pallone come collante sociale. La vita, è una magnifica parata

Roberto Perrone, prima firma del Corriere della sera, ha scritto una storia dedicata al football che nessuno racconta. Una squadra aziendale, un portiere senza pretese.

di Paolo Manzo

L?idea di scrivere Zamora? È nata per caso. All?inizio, più che un romanzo volevo fare una serie di racconti, in cui il calcio avesse una valenza sociale. E il mio primo racconto fu pubblicato proprio da Vita. Anche i giornalisti più famosi, da Soriano a Galeano, scrivono bellissimi racconti, ma parlano di calciatori famosi. Nei loro romanzi lo sport del pallone ha una visione epica. In Zamora, no”. È racchiusa in queste linee la filosofia che sta dietro il primo libro di Roberto Perrone, firma sportiva prestigiosa del Corriere della Sera che ha deciso di ?usare? el folber, come lo chiamava il mitico Gianni Brera, per farlo diventare uno degli elementi della nostra società. Della nostra cultura. Zamora non è un romanzo sul calcio, ma un romanzo col calcio, che è centrale per la vita del protagonista. Come potrebbe essere l?amore, la guerra o la passione. Il romanzo di Perrone si legge tutto d?un fiato e catapulta il lettore in un?atmosfera che, oggi, sembra di altri tempi: gli anni 60. Un?epoca in cui era possibile avvicinare i grandi campioni e in cui i giornalisti uscivano la sera assieme alle stelle di Milan, Inter, Juve e Toro, senza timore che, il giorno dopo, uscissero sulla stampa scoop scandalistici di sorta. I ?mitici? anni 60 “Era un altro mondo. Mi ricordo di un mio collega del Corriere, avanti con gli anni. Un giorno mi confidò che Valentino Mazzola, il padre di Sandro, il capitano del grande Torino che scomparse tragicamente a Superga nel 1949, gli scriveva delle lettere. Erano amici. Veri”, rivela con un velo di malinconia Perrone che, non a caso, sul Corriere cura una rubrica, ?Scudetto per caso?, in cui narra la storia di calciatori che in passato hanno vinto il Tricolore giocando poco o nulla. Calciatori finiti nel dimenticatoio e che oggi vivono vite normali. Gli anni 60 in cui si dipana l?iter narrativo del romanzo di Perrone sono davvero un ?altro mondo?. Lo si vede dai rapporti che intercorrono tra gli ?altri? e il protagonista che, per certi versi, racchiude in sé aspetti autobiografici che lo stesso autore confessa: “Nel carattere di Walter Vismara, alias Zamora, in alcune sue espressioni, nella sua capacità spesso portata all?eccesso del desiderio di una vita tranquilla mi ci rivedo. In certe situazioni in cui si trova male, invece di reagire, cerca d?adattarsi e sospinge i suoi sentimenti ad aderire alla situazione negativa. Ecco, in quei frangenti io sono uguale”. Una sorta di stream of consciousness. Del resto, in ogni romanzo che si rispetti, ci deve essere qualcosa di autobiografico, altrimenti il tutto si ridurrebbe a un mero esercizio barocco di vuota costruzione linguistica. Come ha scritto Luca Doninelli, Zamora è la storia di un uomo che cerca una vendetta e, in realtà, trova un?amicizia. Una definizione che Perrone condivide: “La vendetta muove, ma non ti fa mai arrivare. Se arrivi è per l?amicizia, e Vismara-Zamora la scopre proprio col portiere che poi gli darà ripetizione”. Già, e anche qui si torna agli anni 60, quando il metodo delle ripetizioni private era assai più in voga di oggi. Quando era plausibile che un portiere vero si mettesse a dare ripetizioni, per arrotondare lo stipendio. Scapoli – ammogliati. Che sfide! In Zamora tutto ruota attorno alla grande passione di un padrone d?azienda ?malato? di calcio che organizza, per dipendenti e mogli, la partita Scapoli vs Ammogliati. All?epoca quelle sfide e i tornei da bar avevano un?importanza vitale, rappresentavano tenzoni omeriche. Il ragionier Vismara è assunto, a patto che accetti il ruolo scoperto in squadra: quello del portiere. Lui dice di sì. Inconsapevole. Di qui il nomignolo con cui viene ribattezzato, ?Zamora?, il mitico numero uno della nazionale spagnola anni 30. Di qui la storia che scatena l?immaginario fanciullesco del lettore che vi s?immerge. Negli anni 60 il torneo dei bar era una cosa seria. Perrone ce l?ha bene stampato in testa: “Mi ricorderò sempre che, quand?ero giovane, andai a Cuneo a trovare un cugino. La sera, uscimmo con lui. Era estate. Macinammo chilometri per andare ad assistere a una partita di un torneo di bar. Oltre a noi c?erano duemila persone”. Un?immagine che resta indelebile nella mente di Perrone, un flashback, di un?Italia dove c?era ancora il gusto dello stare insieme, della solidarietà senza bisogno della beneficenza. E, in Zamora, il padrone della fabbrica che obbliga i dipendenti a giocare a pallone è un paternalista, che magari va un po? oltre gli accordi sindacali ma che, dopo la partita, finanzia la grigliata, gestita da mogli di operai e impiegati. Un padrone che, a Natale, distribuisce gratifiche abbondanti. Era un?Italia in cui c?era meno la beneficenza consolidata del ?tutto il ricavato a Emergency?. Un calciobalilla per socializzare Negli anni 60 c?era meno politically correct, ma forse c?era più bene, la gente era più solidale nelle piccole cose, nei rapporti umani. Anche perché c?era più tempo e, a dimostrazione di ciò, la copertina di Zamora è un portiere di calciobalilla. Una scelta voluta. Fortemente perché “quello era il nostro GameBoy, il nostro Pc. Ma era un gioco che si faceva con gli altri. Ai Bagni Vittoria di Rapallo, dove andavo d?estate, il calciobalilla era un luogo d?incontro e socializzazione. Oggi coi computer i bambini giocano da soli. Col calciobalilla no: c?erano quattro persone che giocavano e attorno tutti gli spettatori. Si creava una sorta di giro”. Nel romanzo è l?aspetto socio-culturale dello sport calcio la costante predominante. Ma se gli si chiede che ne pensa del mondo del calcio-business di oggi, Perrone ti spiazza e si dice ottimista. Perché, malgrado tutto, la gente è ancora appassionata, e parla di calcio. Per lui il problema vero è la nostra mentalità, in cui esiste il disprezzo del secondo. “È lì che dovrebbe cambiare il calcio. Bisognerebbe educare alla famosa cultura della sconfitta, mentre da noi chi arriva secondo è un pirla. E questo, nella vita di tutti i giorni, si manifesta in un disprezzo per chi non riesce a emergere e non si tira fuori dalle secche di una vita non eccezionale. Ma non tutti possono arrivare primi e, in questo senso, il calcio purtroppo si sta deteriorando. Soprattutto a livello giovanile”. Il calcio? Una metafora della vita Zamora è la piccola storia di un uomo alle prese col calcio, e che impara il valore della competizione. Lui vuole vincere, chiaramente, ma alla fine non è la vittoria che lo soddisfa. Non gli lascia dentro niente, perché a lui interessava un?altra cosa. In Zamora lo sport è un percorso di vita, che ti può lasciare qualcosa dentro. Oppure no. E che dà una lezione universale: la sconfitta o la vittoria non condizionino la vita al punto da generare una negatività. Si tratta di sport. E nello sport si vince e si perde. È normale. È la vita.


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