Sostenibilità
Il padre delle società benefit: «Le difendo, cambieranno il mercato»
Mauro Del Barba è l'uomo cui si deve la legislazione su queste aziende, che scelgono di perseguire un beneficio comune oltre al profitto. Senza alcun vantaggio fiscale. Da presidente di Assobenefit, sceglie VITA per rispondere al professor Mario Calderini che, nei giorni scorsi, dalle colonne del Corriere, aveva espresso alcune riserve su questo settore ma soprattutto sulla certificazione internazionale B-corp. «Le certificazioni», spiega, «non sono nient'altro che la misura di una performance, sono la metrica di un'azienda in un dato momento. Poco o nulla hanno a che fare con le società benefit»
di Alessio Nisi
Tenere concettualmente separate le società benefit dalle b-corp. Le prime sono imprese che hanno assunto l’impegno ad operare in modo responsabile, sostenibile e trasparente con la comunità e gli altri stakeholder, a rendicontare il proprio impatto sociale e a nominare un responsabile della rendicontazione. Le seconde sono aziende certificate secondo lo standard internazionale creato da B-lab per valutare le performance sociali e ambientali. Un passaggio che permette di definire bene orientamenti e obiettivi delle società benefit: aziende che vogliono cambiare le regole del mercato e che in Italia hanno trovato terreno fertile.
Ne abbiamo parlato con Mauro Del Barba, il padre della legge che, nel 2016 ha istituito le società benefit. Deputato di ItaliaViva, tra la fine del 2015 e il 2016 è stato il primo firmatario, allora da senatore dem, di una norma che ha al centro quelle realtà imprenditoriali (al 30 giugno se ne contano 3164) che perseguono il duplice scopo del profitto e del beneficio comune e che sono gli elementi centrali di un nuovo modello economico di sviluppo sostenibile.
Lo abbiamo fatto dopo l’intervento sulle pagine del Corriere della Sera di Mario Calderini. Professore di Management for Sustainability and Impact della School of Management del Politecnico di Milano, uno dei massimi esperti di sostenibilità in Italia, Calderini aveva sottolineato la necessità che, dopo un periodo di evangelizzazione e diffusione dei principi di sostenibilità (merito che riconosce alla legge), si passi ad una sostenibilità “agita”, che verifichi cioè l’impatto di prodotti e servizi reali e non solo formale.
Del Barba gli risponde come presidente dell’Associazione Nazionale per le Società Benefit – Assobenefit, l’ente che le rappresenta. A sette anni dal varo della legge, Del Barba si chiede se è il momento di intervenire su una definizione più stringente di “bene comune”, sul mercato delle certificazioni e sulla questione dei vantaggi fiscali. «Al tempo dell’emanazione della legge», spiega, «non volli minimamente accostare il concetto di società benefit a quello dei vantaggi fiscali. Si correva il rischio che si abbracciassero questi vincoli esclusivamente ai fini agevolativi, con un’intenzione che avrebbe deteriorato il sistema», rimandando la scelta al momento in cui questo sistema di imprese, «si sarebbe consolidato».
Presidente, si riconosce al testo sulle società benefit di aver portato il tema in Italia, ora si chiede un salto di qualità e la verifica di una sostenibilità meno formale e più agita su prodotti e servizi reali.
Il punto di partenza è la comunicazione delle certificazioni. C’è un’enorme differenza tra comunicazione, certificazione e società benefit. Questa differenza è l’elemento che può iniziare a costituire la risposta all’osservazione di Mario Calderini.
Quale differenza?
Le certificazioni non sono nient’altro che la misura di una performance, sono la metrica di un’azienda in un dato momento. Le certificazioni sono utili, plurali, diversificate, sono momentanee e vanno ripetute nel tempo e appunto forniscono un elemento quantitativo e qualitativo su come un’azienda sta performando attorno ai temi della sostenibilità. Queste certificazioni non hanno però nulla o poco a che vedere con l’idea di una società benefit.
In cosa è diversa una società benefit?
Le società benefit nascono, non tanto per cambiare le performance della singola impresa, ma hanno un obiettivo molto più ambizioso (e qui l’invito di Calderini è assolutamente condiviso): cambiare il paradigma del mercato. Il fatto è che nell’immaginario collettivo e nell’approccio giornalistico spesso le due cose vengono confuse, sovrapposte e accostate.
Che cosa vuol dire cambiare il paradigma del sistema rispetto alla sostenibilità?
La peculiarità delle società benefit non è tanto l’obbligo di misurare le performance attraverso la relazione annuale e la valutazione di impatto (aspetto che sì le accomuna al concetto di certificazione), ma è l’aver assunto un’identità differente da quella che storicamente abbiamo giuridicamente assegnato alle imprese: non più solo la produzione e la divisione degli utili, ma anche il perseguimento di finalità di beneficio comune accanto allo scopo di profitto.
Perché in chiave di sostenibilità dobbiamo passare ad un momento più fattivo e agito, come chiede Calderini?
Dal punto di vista delle performance delle certificazioni vuol dire che dovrò specializzare meglio e sempre più queste metriche affinché vadano a certificare l’agito delle imprese (quello che invoca Calderini), ma questo è un tema complesso, che comunque si limita a rilevare delle misure. Dal punto di vista del sistema, quello che le società benefit invece vogliono provocare è invece molto più ambizioso. Puntano a provocare cioè un agito che guardi ad un nuovo concetto di impresa, che si caratterizzi per avere non uno, ma due scopi societari: uno tradizionale del profitto e uno nuovo del beneficio comune, sociale e ambientale.
Le società benefit sono una modifica genetica della cellula che determina il sistema mercato. Non misuro come performa l’atleta, ma cambio le regole del gioco
Mauro Del Barba – presidente di Assobenefit
Perché cambiare le logiche del mercato?
Le società benefit vogliono cambiare le logiche del mercato, agendo da protagoniste, nella consapevolezza che l’attuale modello, fondato esclusivamente sul profitto, non sia più a lungo sostenibile.
In che modo lo fanno?
Ciò che le società benefit determinano sul mercato è finalizzato a cambiare le logiche stesse del mercato in modo tale che la domanda e l’offerta (che poi determinano la formazione del prezzo e il successo o l’insuccesso delle singole imprese) siano decisamente influenzate dal secondo obiettivo: il beneficio comune. Questo è il punto: dobbiamo creare un mercato che sia prima di tutto popolato da imprese che competano oltreché sul rapporto qualità-prezzo dei prodotti e dei beni realizzati, anche sulla loro capacità di produrre valore sociale e ambientale. In tema di valore di azienda si sta iniziando a valutare un’impresa anche per questi parametri, ma, rispetto a questo nuovo paradigma, siamo ancora all’anno zero. Da questo punto di vista la misura delle performance è una misura necessaria che va continuamente effettuata perché è una cartina al tornasole di come un’azienda sia realmente benefit, anche quando non ne ha assunto la qualifica giuridica.
Da sola però la misura delle performance non basta.
Se noi ci concentrassimo esclusivamente sulle misure delle performance senza fare quella modifica genetica di partenza e senza avere quindi l’obiettivo di cambiare il paradigma su cui si fonda il mercato, ci troveremmo dinanzi a numeri sterili, a cui facciamo anche fatica ad assegnare dei valori certi. Le società benefit al contrario hanno dentro il senso di tutta questa operazione.
Presidente, sta dicendo che dobbiamo passare da una normativa di imprese ad un ecosistema?
Da qualsiasi punto lo si voglia prendere, dal punto finale della misura delle performance o dal punto iniziale del cambiamento identitario di che cos’è un’impresa, quello che serve al mercato è la consapevolezza dei consumatori e una finanza sostenibile, in cui i denari si spostino da un’impresa all’altra guidati non più solo dalla redditività, ma appunto dalla redditività (e dall’impatto) sociale e ambientale, che una società benefit è in grado di generare. Quello che la finanza spinge con i criteri environmental, social, governance – Esg e che il regolatore europeo vuole ottenere con le direttive come la Corporate sustainability reporting directive – Csrd, le società benefit assumono come dato fondativo, realizzando appieno l’obiettivo di creare valore sociale e ambientale annesso al proprio prodotto e servizio.
Come siamo messi in Italia?
Conosciamo molte imprese che, pur non avendo ancora assunto la qualifica di società benefit, operano per volontà dei loro proprietari con una sensibilità sociale e ambientale: questo è il motivo per cui io non ho avuto dubbi a proporre la legge nel 2015. Ero consapevole che l’Italia è un paese in cui si fa impresa con questo spirito.
Sono più di 3 mila le società benefit nel nostro Paese.
Sì, ma sono decine di migliaia quelle che lo sono di fatto e dovrebbero scommettere sulla necessità di assumere questa qualifica giuridica.
Perché dovrebbero?
Perché senza un riconoscimento giuridico finisce per prevalere quello tradizionale: ovvero quello che disconosce questi valori e che insiste nel dire che compito e scopo di un impresa è solo fare soldi.
Come la mettiamo con le società che si dicono benefit, ma su cui aleggiano non pochi dubbi?
È un rischio che ho voluto minimizzare, non collegando la qualifica di società benefit all’ottenimento di benefici fiscali.
Per quale motivo una società allora potrebbe diventare benefit senza averne caratteri e comportamenti?
Cittadini e giornalisti di settore pensano esista una una sorta di bacchetta magica in grado di rendere un’impresa sostenibile: ebbene la cattiva notizia è che non esiste, perché siamo di fronte ad un fenomeno molto complesso. Non dobbiamo focalizzarci su una singola azienda.
Spieghi meglio.
Finché il mercato non ha cambiato il paradigma, un’azienda sulla carta perfetta sotto il profilo della sostenibilità, in un sistema che premia esclusivamente il dato economico, rischia di chiudere tra qualche anno perché la competizione si gioca su altri parametri. Qualificarmi come società benefit è un impegno giuridico, è una sorta di giuramento e con esso una società sta assumendo dei vincoli giuridici che tutte le altre non hanno, senza alcun vantaggio. Essere una società benefit, per intendersi, è una partenza (con questa qualifica si sta sta comunicando di avere obiettivi ed impegni, con numerosi vincoli), ottenere una certificazione è un risultato. Per questo a livello di comunicazione vanno tenuti distinti i due aspetti.
In tema di certificazioni di sostenibilità, Calderini ha rimarcato la necessità di una governance più trasparente.
Le società benefit per legge hanno una governance che impone trasparenza.
In apertura foto di Daniel Funes Fuentes per Unsplash. Nel testo, immagine per gentile concessione dell’ufficio stampa Assobenefit.
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