Welfare

Il nuovo Welfare passa dal Made in Italy

Dal privato sociale alla white economy: la riforma del welfare potrebbe far ripartire l’economia

di Francesco Cancellato

«Gli artigiani, in futuro, non produrranno più beni di consumo, ma luoghi e comunità in cui è bello vivere». Detta così, questa profezia di Mauro Magatti, professore universitario, sociologo ed economista e tante altre cose, può apparire quasi una banalità. O peggio, il tentativo di compiacere dal palco chi lo stava ad ascoltare dalla platea: artigiani, per l’appunto, accorsi in massa a Verona per la sesta edizione del “Festival della Persona” organizzato da Confartigianato. Desiderosi, soprattutto, di sentirsi dire da qualcuno che la loro professione non morirà sotto il fuoco incrociato di globalizzazione e crisi.  Non è nessuna delle due cose, in realtà, ma qualcosa di ben più serio. Ci si deve arrivare per gradi, tuttavia. Partendo, non potrebbe essere altrimenti, dall’amara e innegabile constatazione che il welfare state – o stato sociale, se siete inguaribili nostalgici – difficilmente sopravvivrà così come l’abbiamo conosciuto.

Per dirne tre a caso: il tasso di disoccupazione giovanile è al 44,2%, il numero di over 80 negli ultimi vent’anni è aumentato del 150% circa, gli studenti stranieri nelle scuole italiane sono passati da 200 a 800mila in poco più di dieci anni.  Credete che le risorse per far fronte a questi nuovi ed emergenti bisogni siano aumentate? No, non lo sono. O meglio: sì, la spesa per pagare le pensioni di anzianità è aumentata a dismisura e oggi è pari a 27,9% della spesa nazionale complessiva e ha reso necessaria una riforma che per pagare i pensionati di oggi ha tolto mezza pensione o quasi a quelli di domani. Tutto il resto, già di per sé insufficiente, si è ulteriormente ridotto, a causa delle regole di bilancio dell’Unione Europea.

In parole molto povere, se crescono i bisogni e diminuiscono le risorse, il sistema di assistenza sociale basato sulle erogazioni monetarie e sulla spesa pubblica non regge più.  Ancora peggio: se andiamo avanti così reggerà sempre meno pure il welfare ”fai da te” famigliare, la stampella che l’ha sostenuto in questi ultimi anni a colpi di nonne che si sostituivano agli asili nido e genitori che si sostituivano alle banche. Negli ultimi vent’anni il tasso di risparmio delle famiglie è crollato, passando dal 25% del 1990 al 12% del 2007. Nel frattempo sono aumentati i debiti, che dal 1998 al 2008 sono passati da 2.200 a 6.300 euro per famiglia. Un impoverimento diffuso – e gli uffici dei servizi sociali di buona parte dei comuni italiani lo sanno bene – sta diventando un problema molto serio.

Eccoci al dunque: se né lo Stato, né le famiglie ce la fanno, quindi, chi allora? La comunità, piaccia o meno, è l’unica risposta possibile: imprese, sindacati, associazioni di categoria, enti bilaterali, assicurazioni, banche, fondazioni bancarie, d’impresa e di comunità, imprese low profit e sociali, cooperative, enti religiosi, volontariato e, infine, i cittadini-utenti stessi, se si pensa alle pratiche sempre più in uso e in voga di sharing economy. Una serie di soggetti, insomma, potenzialmente in grado di essere produttori e fruitori, domanda e offerta.

Si tratta di un futuro da ricordare, in molti casi. Le associazioni di rappresentanza degli artigiani, ad esempio, sono decenni che si garantiscono a vicenda per spuntare condizioni migliori alle banche attraverso i consorzi fidi. O ancora, che si fanno promotori di fondi contrattuali destinati agli ammortizzatori, alla sanità, alla previdenza integrativa. Allo stesso modo, si pensi a realtà come Auser e ai servizi di accompagnamento o di sostegno alla vecchiaia. E ancora, ai progetti sociali delle fondazioni bancarie (124 milioni di erogazioni nel solo 2012). Senza dimenticare, ovviamente, il ruolo delle imprese sociali, che tra il 2003 e il 2012 sono più che raddoppiate. Così come non va dimenticato che in Italia ci sono più di 300mila realtà no profit e quasi 5 milioni di volontari.  

Tappabuchi, fino a oggi, delle inefficienze e delle debolezze altrui, tutti questi attori potrebbero diventare alleati dello Stato e degli enti locali nel progettare un nuovo welfare comunitario basato non più sull’erogazione di risorse di mamma Stato, ma sulla produzione di servizi da parte di tutti questi soggetti, sotto la regia del pubblico.

Esempi già ne esistono parecchi: pensiamo, ad esempio, alla Piazza dei Mestieri di Torino, uno stabile di 7000 metri quadri che si rivolge ai giovani dai 14 ai 20 anni e che si pone l’obiettivo di combattere l’abbandono scolastico e la successiva esclusione sociale attraverso percorsi di formazione, di orientamento, di ricreazione e di supporto all’inserimento lavorativo. Dentro Piazza dei Mestieri ci sono Comune, Provincia, Regione, ma anche la Camera di Commercio banche come Intesa-San Paolo, multiutility come Iren, Fondazione Crt e Fondazione con il Sud, fino a imprese come Bosch e L’Oreal.

Realtà simili continuano a nascere, giorno dopo giorno, come ricorda l’ultimo rapporto della Fondazione Symbola sulle nuove geografie del made in Italy, non a caso intitolato “Coesione è competizione”: c’è B10nix, un’impresa che sviluppa prodotti per l’interazione uomo-macchina a favore delle persone  con disabilità. C’è Belvedere, che gestisce in modo esemplare la discarica di Peccioli (Pisa) producendo utili che vanno ai  piccoli azionisti e alla comunità. C’è la piattaforma web per censire e rilanciare edifici abbandonati [im]possible living. O il laboratorio urbano Ex-Fadda a San Vito dei Normanni: dove grazie al cantiere di auto-costruzione (100 operai volontari) sono stati recuperati 4mila  mq di stabili per avviare iniziative sociali e imprenditoriali.

«Nei lunghi anni della recessione le famiglie italiane hanno supplito con le proprie risorse ai tagli del welfare pubblico – ha recentemente dichiarato Roma, Generale del Censis – Oggi questo peso inizia a diventare insostenibile. Per questo è necessario far evolvere il mercato informale e spontaneo dei servizi alla persona in una moderna organizzazione che garantisca prezzi più bassi e migliori prestazioni utilizzando al meglio le risorse disponibili». Sempre secondo il Censis, la «white economy» – tutto ciò che riguarda salute, assistenza e benessere delle persone – genera oggi un valore della produzione di oltre 186 miliardi di euro, pari al 6% della produzione economica nazionale, con una occupazione di 2,7 milioni di addetti. Riformare il settore, agevolando il protagonismo della comunità e dei cittadini è quanto di più simile a una politica industriale che si possa oggi immaginare per l’Italia.

da linkiesta.it


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