Cultura

Il nuovo educatore? È il web (e non va bene così)

A Napoli un bambino di 11 anni si è suicidato: di mezzo, forse, una sfida sui social. Ivano Zoppi: «Oggi se un ragazzo non ha un punto di riferimento adulto con cui confrontarsi, la ricetta più facile è digitare su Google il bisogno. Google c’è sempre, H24 e dà sempre una risposta. Solo che la risposta appare in base ad algoritmi che nulla hanno a che fare con l’educazione. Cercano risposte ma anche like, cioè qualcuno che li guardi: perché noi non li vediamo...». Sicuri che va bene così?

di Sara De Carli

Morire a 11 anni, gettandosi dalla finestra di casa. La vicenda del bambino di Napoli è di quelle che lasciano senza parole. Ogni parola pare superflua e allo stesso tempo dannatamente necessaria, per tirarci fuori dall’abisso di quella domanda che come genitori ci prende alla gola: “Come è possibile?”. C’è chi ha additato la crisi, chi il fatto che in questi mesi siano aumentate le fragilità psichiche dei ragazzi, a cui sono stati tolti tutti i fattori ordinari di protezione e benessere (amici, sport, scuola…), chi il bullismo, chi le sfide sui social. Che esistono, certamente, anche se Blue Whale – se ne parlò tanto alcuni anni fa, 50 prove in 50 giorni – in realtà era una fake news. C’è un biglietto, sembrerebbe, in cui il ragazzino chiede perdono per ciò che sta per fare e che però viene presentato come un gesto necessario, con un "devo" e un riferimento a un "uomo incappucciato”.

Ivano Zoppi è segretario generale di Fondazione Carolina, nata per sensibilizzare la comunità educante sui rischi legati all’utilizzo scorretto e inconsapevole dei nuovi media. Il nome è quello di Carolina Picchio, la prima vittima riconosciuta di cyberbullismo in Italia. In primavera hanno realizzato una guida per genitori per conoscere meglio i social e i loro meccanismi.

Qual è il suo primo pensiero?
Che tutti per tre giorni saremo dispiaciuti per questo ragazzino e per la sua famiglia e magari anche personalmente preoccupati da questa notizia ma poi, passata l’emozione, non cambierà niente. Il problema è che c’è un enorme vuoto educativo, di cui ci accorgiamo solo quando c’è un dramma di queste proporzioni. Ma il disastro è frutto di una quotidianità, con un ruolo educativo che non è coperto e vissuto.

E le sfide online?
La seconda istanza riguarda la tecnologia, certo. Abbiamo in Italia una indicazione che prima dei 14 anni i social non possono essere utilizzati, come genitori ci ostiniamo invece a disattenderla mentre i giganti del web continuano a non impegnarsi seriamente per farla rispettare. L’altro punto è ricordarci che internet non è un più servizio ma un luogo, dove i nostri figli come noi abitano e vivono, al di là della vicenda di questi giorni che deve essere ancora del tutto chiarita. Il web è un luogo in cui gli adolescenti vivono quotidianamente gioie, dolori, frustrazioni. Oggi, se un ragazzo non ha un punto di riferimento adulto con cui confrontarsi, la ricetta più facile è digitare su Google il bisogno. Google c’è sempre, H24 e una risposta la dà sempre. Solo che la risposta appare in base ad algoritmi che nulla hanno a che fare con l’educazione, è una risposta non filtrata. I ragazzi però non hanno gli strumenti per vagliarla e la prendono per buona perché è la prima risposta che appare, la più in alto. Anche un gioco assurdo e stupido agli occhi dell’adulto, per un ragazzo senza riferimenti e con fragilità, genera emozioni e appigli per farsi coinvolgere. E allora sì che ti porta fino all’estremo perché ci sei tanto dentro che non riesci più a capire cosa è giusto e cosa è sbagliato. L’altra cosa che è urgentissimo imparare è che tutto ha conseguenza nella vita reale, qui davvero dobbiamo capire che non stiamo facendo un video di TikTok…

Quindi c’è un vuoto educativo da parte di noi genitori che il web riempie.
La rete è il nuovo educatore, perché è il luogo a cui i ragazzi si rivolgono quando hanno una domanda o un bisogno. È lì H24, è facilmente accessibile e ti risponde sempre. Lì cercano risposte ma anche like, cioè qualcuno che ti guarda. Su TikTok c’è la qualunque, ragazzine di 12-13 anni che ballano in modo provocante, esibizione di corpi e intimità che sono buttate in rete senza rispetto per se stessi, una costante del mettersi in mostra, dell’avere un like, di qualcuno che ti approvi anche se non fa parte della tua cerchia di conoscenti. Nel lockdown il consumo di tecnologia è aumentato spaventosamente e ha assunto ancor più il ruolo di rifugio: lì posso incontrare, dialogare, trovare…

Se cercano un like per "essere visti" vuol dire il nostro sguardo su di loro invece i nostri figli non lo sentono?
No. Mentre serve esattamente che sentano uno sguardo che ti vede e ti stima e ti dice che sei unico e speciale, un’opera d’arte. Ma se non c’è questo sguardo da parte degli educatori, a partire dalla famiglia e dalla scuola, se non te lo dicono loro… va da sé che vai a cercarlo dal nuovo educatore.

Diceva del problema che, come dopo altri episodi di cronaca, l’emozione passerà e cambierà poco. Mentre servirebbe…
Ce ne dimentichiamo. Vedo sempre più video su Tik Tok fatti a scuola, vuol dire che lì nessuno sta controllando. E come genitori mentre non lasceremmo in un parco da solo nostro figlio per 8 ore, spesso li lasciamo per più tempo su internet, che peraltro è un “parco” estremamente più ampio. Per risolvere questo problema, che sarà sempre più grosso, dobbiamo creare un sistema di comunità educativa, dare supporto alla famiglia e strumenti alla scuola e agli altri contesti educativi. Occorre costruire reti di prossimità fatte sì di esperti ma che diano strumenti ai genitori e a chi ha responsabilità educative per stare accanto ai ragazzi. Che non vuol dire fare i video di Tik Tok insieme, ma capire il bisogno che stanno cercando di realizzare.

Photo by Jason Leung on Unsplash

Nessuno ti regala niente, noi sì

Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.