Welfare
Il nostro welfare? Incapace di tutelare i diritti umani delle persone con disabilità
Intervista con Giampiero Griffo, presidente di DPI Italia e esperto di diritti delle persone con disabilità nelle emergenze. «Nei momenti di crisi risorgono vecchi schemi e stereotipi, la logica militare del limitare le perdite. Ma dopo la Convenzione Onu anche nell’emergenza la logica è quella dei diritti umani, per tutti»
Il decreto legge del 9 marzo, dice che le regioni e le province autonome «hanno facoltà di istituire, entro dieci giorni dall'entrata in vigore del presente decreto, unità speciali atte a garantire l'erogazione di prestazioni sanitarie e socio-sanitarie a domicilio in favore di persone con disabilità che presentino condizione di fragilità o di comorbilità tali da renderle soggette a rischio nella frequentazione dei centri diurni per persone con disabilità». I dieci giorni sono trascorsi «ma non abbiamo il quadro delle Regioni che hanno istituito quelle unità speciali. Alcune sì – so della Campania per esempio – altre no. Il punto è che questa non dovrebbe essere una possibilità, ma un obbligo: in Italia ci sono 3,5 milioni di persone beneficiarie di una provvidenza, l’Istat dice che il 25% della popolazione italiana ha una disabilità, in un quadro di emergenza come quella che stiamo vivendo oggi le unità speciali per garantire l'erogazione di prestazioni sanitarie e socio-sanitarie in favore di persone con disabilità vanno assolutamente messe in campo. E le associazioni o le federazioni devono farne parte». A parlare così è Giampiero Griffo, presidente di Disabled People International Italia, esperto di diritti delle persone con disabilità (ha rappresentato l’Italia nei lavori della Convenzione Onu) e come concretizzare l’attenzione alle persone con disabilità nelle emergenze. Ha lavorato nei campi profughi, nella striscia di Gaza… forse non potevamo immaginare che l’emergenza ci toccasse così da vicino.
Facciamo il punto? Finalmente nel decreto #CuraItalia interventi specifici per le persone con disabilità ci sono.
Sì, adesso i decreti hanno compreso che i CDD e i centri di riabilutazione sono luoghi pericolosi per le infezioni, perché lì le persone sono a contatto diretto. Ciononostante molte realtà hanno denunciato e ancora denunciano la mancanza di garanzie di protezione.
Qual decreto chiude i centri e dice che l’Azienda sanitaria locale può, d’accordo con gli enti gestori dei centri diurni socio-sanitari e sanitari, attivare interventi di assistenza domiciliare. In realtà parla di interventi non differibili e solo per le persone con disabilità ad alta necessità di sostegno sanitario.
Questo incremento dell’assistenza domiciliare non sta avvenendo, almeno nella gran parte dei casi. Molte regioni hanno welfare molto rigidi, la chiusura dei Centri o delle strutture di riabilitazione non diventa automaticamente assistenza domiciliare nonostante la disponibilità degli enti gestori: ci sono problemi di convenzione e soprattutto il fatto che – dice il decreto – non deve esserci un incremento di spesa. È una cosa assurda, perché si sta incrementando la spesa per tutti tranne qui. Significa far ricadere il peso sulle famiglie. Se chiudo un servizio – e lo devo chiudere, per motivi sanitari – non possono pensare che non si incrementi un altro servizio obbligatoriamente.
Che altri nodi vede?
Non lo si dice se non fra le righe, ma cosa sta succedendo nei centri residenziali? Quanti degli anziani che sono positivi al Coronavirus si sono infettati nelle RSA o nei centri per anziani o disabili di tipo sociale? Qui i sistemi di prevenzione sono difficili da applicare, basti pensare a una persona incontinente. Non c’è un’attenzione specifica per questi ambienti. Anche il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha evidenziato come in queste strutture vanno tutelati non solo il diritto alla salute, ma anche il diritto al mantenimento delle relazioni familiari, spesso unica motivazione che sostiene la vita degli ospiti, favorendo forme di comunicazione alternative alla visita, anche a distanza, perché sarebbe inaccettabile una svalutazione del bisogno di relazioni sociali. La limitazione delle visite da parte di familiari e volontari – qui come nelle carceri o nei centri per migranti – potrebbe far venire meno quel controllo sociale che garantisce che le persone siano rispettate in tutti i loro diritti. Un altro aspetto è quello sollevato dal documento del 6 marzo scorso della SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva), riguardante le modalità di intervento in una situazione di emergenza, con una valutazione delle risorse strumentali e logistiche disponibili: qualora si dovesse scegliere chi curare, quali saranno i criteri? Il Comitato di Bioetica della Repubblica di San Marino ha fornito – primo al mondo, a quel che mi risulta – un parere sull’eventuale selezione delle persone da trattare in terapia intensiva: nessuna distinzione per età e condizione di disabilità, ma solo sulle condizioni cliniche, che ogni medico deve valutare per decidere gli interventi di cura. Il punto è che i princìpi di non discriminazione e di eguaglianza di opportunità si devono applicare a tutte le persone, anche in situazione di emergenza. Invece questa situazione sta facendo emergere che noi persone con disabilità siamo ancora gli ultimi, gli invisibili, tant’è che per avere provvedimenti ovvi come la chiusura dei centri diurni ci sono voluti molti giorni. E che nei momenti di crisi risorgono vecchi schemi e stereotipi, la logica del “prima le donne e i bambini”, come in un naufragio… ma è una logica vecchia.
In che senso?
Perché guarda l’emergenza secondo una logica militare, del limitare le perdite. Ma dopo la Convenzione Onu anche nell’emergenza la logica è quella dei diritti umani, per tutti. Anche il triage non può essere fatto su concetti discriminatori: bisogna dare uguaglianza di opportunità anche alle persone con disabilità. La conclusione è che il nostro welfare non è ancora capace di tutelare i diritti umani delle persone con disabilità, è imperniato ancora su un modello di welfare di protezione mentre la Convenzione chiede un welfare di inclusione. E nessuna delle 21 regioni italiane sta applicando la Convenzione nel proprio welfare.
Photo by alexandre saraiva carniato from Pexels
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