Politica
Il nonsense della distinzione “commerciale vs non commerciale”
Il superamento della nozione di attività commerciale e non commerciale doveva essere la sfida del nuovo codice. Le attività di interesse generale potevano essere de commercializzate. Le attività diverse da quelle di interesse generale oltre una ragionevole soglia potevano invece essere tassate nei termini ordinari. L’art 79 del Codice purtroppo ha scelto un’altra strada. Che mette a rischio il via libera da parte dell’Europa
L’architettura delle norme tributarie contenuta nel codice del Terzo Settore poggia su due pilastri ereditati entrambi dalla precedente normativa: il primo fa riferimento alla circostanza che ad essere agevolate siano le attività di interesse generale condotte dall’ente. È il concetto contenuto nel Dgls 460/97 che ha istituito le Onlus e che prevedeva che la qualifica di Onlus poteva essere acquisita dalle organizzazioni che operavano in determinati settori di attività a cui si attribuiva una rilevante finalità di interesse sociale.
Il decreto chiariva inoltre che il perseguimento delle finalità di solidarietà sociale per le organizzazioni che operavano nei settori individuati si intendeva soddisfatto quando le prestazioni erano dirette ad arrecare benefici a:
- a) persone svantaggiate in ragione di condizioni fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari;
- b) componenti collettività estere, limitatamente agli aiuti umanitari.
A prescindere invece dai destinatari finali delle prestazioni, si consideravano comunque inerenti a finalità di solidarietà sociale le attività statutarie istituzionali svolte in altri determinati settori come ad esempio la tutela, promozione e valorizzazione delle cose d'interesse artistico e storico.
Questa disciplina ha consentito a molte organizzazioni sia costituite sotto forma di enti associativi che Fondazioni, operanti nei settori indicati dalla normativa, di acquisire la qualifica di Onlus e di ottenere la completa de commercializzazione dei proventi realizzati nella propria attività.
Le attività dovevano essere condotte nei confronti del pubblico e non nei confronti dei soci proprio in virtù della circostanza che ad essere agevolate erano le attività dirette ad arrecare benefici a soggetti svantaggiati e non ad una ristretta cerchia di associati.
L’altro pilastro è quello contenuto nell’art. 143 del Tuir secondo il quale non si considerano attività commerciali le prestazioni di servizi rese in conformità alle finalità istituzionali dell'ente se realizzate senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione.
L’art. 79 del Codice del Terzo Settore da una parte intende agevolare le attività di interesse generale senza però ancorarle a specifici destinatari ma al pubblico in generale e dall’altra subordina le agevolazioni alla circostanza che i corrispettivi non eccedono i costi effettivi.
Un fusione a freddo di due normative che oltre a generare i pasticci di cui abbiamo scritto recentemente su Vita esaspera i limiti contenute in entrambe le norme appena richiamate.
Ed esaspera la vita anche delle organizzazioni costrette ad applicare una normativa complessa e che poggia la sua natura sulla distinzione tra attività commerciale e non commerciale che ha generato la stragrande maggioranza degli accertamenti fiscali, spesso con esiti nefasti, a carico delle organizzazioni non profit.
Il recente parere del Consiglio di Stato, commentato nell’articolo di Alessandro Mazzullo, nei fatti alimenta tutte le perplessità su cui è fondata questa architettura.
Il superamento della nozione di attività commerciale e non commerciale doveva essere la sfida del nuovo codice. Le attività di interesse generale potevano essere, al pari delle Onlus, considerate interamente de commercializzate o soggette ad una imposizione molto agevolata.
Le attività diverse da quelle di interesse generale oltre una ragionevole soglia potevano essere tassate nei termini ordinari.
Se il cardine sul quale si è costruita la normativa fiscale è fondata sulla necessità di agevolare alcune precise attività in virtù delle finalità di pubblica utilità che esse concorrono a realizzare vuol dire che il presupposto è quello di considerare gli Enti del Terzo Settore delle particolari organizzazioni private che concorrono, per finalità non lucrative, insieme alla pubblica amministrazione, ad erogare i servizi di welfare già provati dalla pesante riduzione di spesa pubblica che negli ultimi vent’anni si è manifestata in Italia e in Europa.
Su questi presupposti non ha alcun senso introdurre la distinzione tra attività commerciali e attività non commerciali ma la distinzione principale avrebbe dovuto reggersi proprio su attività di interesse generale agevolate e attività diverse non agevolate.
Concetto questo peraltro espresso dalla Circolare 18/E emessa dalla Amministrazione finanziaria a proposito delle organizzazioni sportive dilettantistiche.
Il principio contenuto nella circolare è che esistono alcune attività connesse a quelle istituzionali che meritano di essere agevolate per la particolare connessione e strumentalità a quelle principali ed altre che devono invece seguire il criterio dell’imposizione ordinaria.
Questo limite chiaro avrebbe fatto anche superare i problemi di compatibilità tra la normativa prevista dal codice e i principi di concorrenza ai quale l’Unione Europea è molto sensibile.
Se la normativa fiscale fosse stata improntata sulla necessità di agevolare alcune attività di interesse generale, anche il compito degli accertatori sarebbe stato facilitato. L’abuso delle agevolazioni fiscali si sarebbe configurato in due semplici circostanze: nel caso in cui l’ente avesse svolto con modalità lucrative le proprie attività o se avesse svolto attività diverse da quelle di interesse generale. Finalmente avremmo avuto accertamenti diretti a verificare la reale attività svolta dagli enti e la reale corrispondenza alle finalità di interesse generale e non la cervellotica ricerca dell’equilibrio tra costi e ricavi a cui è ancorata la normativa.
Infine la riforma del Terzo Settore poteva essere l’occasione per rivedere la normativa dell’iva e recepire in un disegno organico le esenzioni previste dalla normativa europea.
Per le attività socio-sanitarie, le attività sportive e le attività culturali sono previste nella Direttiva dell’Unione Europea del 28 Novembre 2006 specifiche esenzioni che l’Italia o non ha recepito o lo ha fatto in modo confuso.
Emblematico è l’esenzione iva prevista dall’art. 10 del DPR 633/72 per le prestazioni proprie delle biblioteche, e quelle inerenti alla visita di musei, gallerie, pinacoteche, monumenti, ville, palazzi, parchi, giardini botanici e zoologici e simili. Si tratta di una norma concepita circa 50 anni fa, che ha generato molte incertezze e che soprattutto non considera la complessità delle prestazioni dei servizi culturali oggetto di una radicale trasformazione, anche normativa, negli ultimi 50 anni.
Un disegno organico e chiaro della disciplina fiscale sia ai fini dell’imposizione diretta che indiretta era il sofisticato ma urgente intervento di cui abbiamo bisogno.
*commercialista, esperto di non profit, associazionismo e imprenditoria culturale
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