Welfare

Il “non-modello” italiano per l’integrazione degli immigrati

Viene presentato oggi, 17 dicembre, in diretta streaming “L’integrazione dimenticata. Riflessioni per un modello italiano di convivenza partecipata tra immigrati e autoctoni”, il nuovo volume del Centro studi e ricerche Idos realizzato in collaborazione con l’Istituto studi politici San Pio V, che spiega perché il nostro Paese non ha mai avuto una politica organica sul tema e nonostante ciò ha mantenuto una certa “pax sociale”

di Redazione

In quasi mezzo secolo il nostro Paese non è riuscito a darsi un’efficace legge sull’immigrazione e di conseguenza non ha una politica organica per l’integrazione dei migranti. Eppure, in Italia, esiste un “non modello” di integrazione, che sarà anche sottotraccia, implicito e non codificato. È questa la tesi dimostrata da “L’integrazione dimenticata”, l’ultimo lavoro del Centro Studi e Ricerche IDOS realizzato in collaborazione con l’Istituto di Studi Politici S. Pio V. Il volume viene presentato oggi, 17 dicembre dalle ore 16 alle 18 in diretta streaming sulla pagina Facebook e sul sito di Idos, dal quale sarà anche possibile scaricarlo gratuitamente durante le due ore del convegno.

L’integrazione dimenticata. Riflessioni per un modello italiano di convivenza partecipata tra immigrati e autoctoni”, che ha la prefazione del sociologo Paolo De Nardis (presidente del San Pio V) e l’introduzione di Tatiana Esposito, direttrice generale per le Politiche di integrazione del ministero del Lavoro, raccoglie i contributi di alcuni tra i maggiori esperti italiani sul tema delle migrazioni, tra i quali Maurizio Ambrosini, Roberta Ricucci, Stefano Allievi, Giovanna Gianturco, Alberto Guariso, Christopher Hein, Salvatore Geraci, oltre a tutti i ricercatori di IDOS incluso Franco Pittau.

Nell’integrazione degli stranieri l’Italia non si è rifatta a modelli già affermati (come l’“assimilazionismo” francese, il “melting pot” britannico o il “lavoratore ospite” – gastarbeiter – tedesco), ma si è mossa con disorganicità e senza una strategia unitaria, lasciando che si consolidassero dinamiche di discriminazione, segregazione e subalternità.
È quanto avvenuto ad esempio nell’accoglienza, dove l’integrazione si è da tempo concretizzata in interventi estremamente basici e di corto respiro (dai corsi di lingua, all’orientamento e all’assistenza legale) per i rifugiati e i richiedenti asilo, ormai sempre più identificati nell’immaginario comune come “gli immigrati” tout court; interventi che, una volta usciti dal sistema di accoglienza, non evitano il continuo formarsi di ghetti e sacche di emarginazione, spesso usati dalla criminalità come serbatoi da cui attingere manodopera in nero per l’illegalità.

Un’analoga perdurante esclusione si verifica, dati alla mano, anche nell’inserimento sociale, non solo per forme di vera e propria “discriminazione istituzionale” (ostacoli burocratici ad hoc per accedere a bonus bebè, buoni mensa, sostegno al reddito ecc.), ma anche per quanto riguarda, ad esempio, il mercato della casa: le proibitive condizioni di accesso al mutuo, unite alle discriminazioni subite dai locatori, tiene ferma al 20% la quota di stranieri proprietari di abitazione (contro l’80% tra gli italiani) e li relega ancora nei quartieri più disagiati.
Non molto migliore la situazione nella scuola, in cui nonostante la presenza di 858 mila alunni di origine straniera (di cui ben 2 su 3, cioè 531mila, nati in Italia) e di moltissime classi “miste”, non sono stati ancora compiuti passi avanti per superare l’impostazione rigidamente italocentrica della didattica e per aprirsi a patrimoni di conoscenze di altre culture. E in cui restano tuttora alti i tassi di dispersione e ritardo scolastico per i figli di immigrati (30% alle primarie e 58% alle superiori, contro il 10 e il 20% degli italiani), nonché la loro propensione a scegliere scuole superiori di tipo tecnico o professionale invece dei licei, precludendosi così la possibilità di competere per posti di lavoro ad alta qualifica.

Del resto, con un modello di “segregazione occupazionale” a suo modo coerente, gli stessi lavoratori immigrati sono stati per decenni incanalati e tenuti rigidamente compressi ai più bassi livelli del mercato del lavoro, quello secondario o subalterno, secondo “una filosofia puramente utilitaristica” (le famose “braccia”). Non è dunque un caso che due terzi dei 2 milioni e 505mila occupati stranieri svolgano professioni non qualificate, che per il 33,5% siano sovraistruiti rispetto alla mansione svolta, che siano maggiormente esposti a forme di lavoro nero o “grigio” e che la media dei loro stipendi sia più bassa di almeno il 25% a parità di impiego rispetto agli italiani (con punte del 33,7% in settori come l’agricoltura).

Con queste premesse e a fronte di un aumento della propaganda xenofoba e degli atti di razzismo come è stato allora possibile – si sono chiesti gli autori dello studio – che l’Italia abbia finora goduto di una certa “pax sociale”, in cui i pur esistenti conflitti e rivendicazioni sono avvenuti in modo tutto sommato civile e senza violenza?
A spiegare questo “paradigma” italiano dell’integrazione è innanzitutto una “distribuzione territoriale degli immigrati tendenzialmente diffusa”. Roma e Milano, ad esempio, ne accolgono una quota molto minore rispetto ad altre metropoli europee come Londra, Parigi o Barcellona; né si sono generati ai margini delle grandi città della penisola quelle periferie-ghetto (come le banlieue) le cui problematiche di degrado urbano e sociale sono legate anche a un’eccessiva concentrazione di popolazione indigente.

Questo “modello diffusivo”, spiega il volume, è dovuto a due caratteristiche tipicamente italiane. La prima è la presenza di tante piccole e medie imprese che costellano, in maniera estesa, il territorio nazionale (e sono queste che impiegano i tre quarti dei lavoratori immigrati). La seconda è l’esistenza di ancora forti patrimoni identitari locali che creano più facilmente “senso di appartenenza”: in un Paese in cui l’“unità” è relativamente recente, il frequente inserimento degli immigrati in cittadine e centri di provincia dotati di proprie tradizioni culturali rende più facile per loro acquisire quel patrimonio identitario. Nel piccolo, insomma, è più facile farsi accettare e convivere.
Sono dunque queste circostanze di tipo storico-culturale, economico e perfino urbanistico, scrive il presidente di Idos Luca Di Sciullo, a fungere «non solo da fisiologici “ammortizzatori sociali”, ma anche da proattivi determinanti di un’integrazione “di prossimità”».

Alla presentazione di “L’integrazione dimenticata. Riflessioni per un modello italiano di convivenza partecipata tra immigrati e autoctoni”, oltre a Di Sciullo, De Nardis ed Esposito, interverranno Maria Immacolata Macioti (già docente dell’Università Sapienza di Roma), Roberta Ricucci (Università di Torino, Benedetto Coccia (Istituto San Pio V) e Maurizio Ambrosini (Università Statale di Milano).

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