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Il muro? Iniziò a cadere nel 1979

Sono passati trent'anni dalla caduta del Muro di Berlino. Fu un evento improvviso, ma preparato da un lungo lavoro di dissidenza e da un viaggio: quello di Giovanni Paolo II in Polonia nel giugno del 1979. Ne parliamo con Luigi Geninazzi, che ha vissuto quei giorni e quegli anni da inviato speciale

di Marco Dotti

Quando cadde il Muro, lui c'era. Storico inviato speciale del Sabato e di Avvenire, Luigi Geninazzi ha vissuto e studiato, oltre che raccontato, le rivoluzioni dell'Europa centrale e dell'est.

Il 9 novembre 1989, lei dov'era?
La sera stavo partendo per Mosca. Verso le nove, le dieci cominciavano ad arrivare le prime notizie di gente che premeva ai varchi del Muro. Tant'è che, ancora adesso, a livello storico non sappiamo per la prima volta dove e quando si è aperto il varco. Arrivavano le prime notizie dalle Agenzie: qualcosa stava accadendo, bisognava capire. Dal giornale mi mandarono a Berlino. Arrivai la mattina dopo, molto presto e mi sono fermato alcuni giorni.

Cosa ricorda?
Ricordo il senso di un'esperienza. È stata una delle esperienze più belle della mia vita, non solo a livello professionale. È stata una festa, è stato uno spettacolo nel senso più nobile del termine. Mi sono trovato a Berlino in mezzo a decine, centinaia di migliaia di persone che uscivano in auto e a piedi. Avevano un'aria stupita, piena di curiosità per un mondo nuovo che avevano sognato. Un mondo che era lì a portata di mano, ma che per una vita intera non avevano potuto né toccare, né vedere. Un altro spettacolo fu l'accoglienza. Ricordo molto bene cosa accadeva ai varchi: alle donne venivano offerti dei fiori, agli uomini lattine di birra.

Un senso di vera apertura, quindi?
La cosa che più mi colpì furono gli abbracci. Le persone si abbracciavano, come se si ritrovassero dopo decenni. Erano abbracci fra sconosciuti. Ma, in fondo, erano abbracci tra fratelli. È stato un momento di grande festa.

Nessun freddezza, quindi, né rabbia…
Tutt'altro. Un giornale titolò “Il caos più meraviglioso”. La città era paralizzata dalle Trabant. Per tornare in albergo dovetti farmi largo a piedi. Il metrò e le strade erano intasate. Furono giorni di entuasiasmo incredibile.

Lei ha vissuto in tanti Paesi del blocco comunista. Qualcosa era nell'aria, o fu un fulmine a ciel sereno?
Oggi tutti gli anniversari si fanno per il crollo del Muro. Fu il momento più iconico e simbolico, l'apice. Ma il Muro ha cominciato a sgretolarsi molto tempo prima.

Se parliamo del comunismo, quando vediamo le prime crepe?
Negli anni Ottanta, con la nascita del sindacato libero Solidarnosc in Polonia. Una serie di sommovimenti molto importanti si susseguirono. Io penso che potremmo festeggiare il 4 giugno del 1989.

Che cosa è accaduto il 4 giugno? Quasi non lo ricordiamo più…
Per la prima volta in un Paese comunista come la Polonia si andò a elezioni semi-libere. Ma dobbiamo ricordare anche l'Ungheria, quando aprì la cortina di ferro tagliando materialmente il filo spinato che la divideva dall'Austria, permettendo a molti tedeschi orientali che si trovavano in Ungheria come turisti… Ricordo che una settimana prima che cadesse il Muro mi trovavo a Berlino…

Ebbe sentore di qualcosa?
Ero là proprio perché c'erano sommovimenti. Le chiese erano piene di gente che voleva il cambio del regime. C'era anche un grande dibattito: davanti ai tedeschi che, passando dall'Ungheria, entravano in Austria molta gente diceva “io resto qui”. Lo gridavano, perché volevano cambiare il regime. C'era un movimento molto forte che si raccoglieva davanti alle chiese protestanti, a Lipsia e a Dresda. Al tempo, parlai con molti pastori protestanti. Non ultimo Reiner Eppelmann…

Una figura molto nota nel mondo dell'opposizione al regime…
Lo intervistai una settimana prima della caduta del Muro. Nessuno, nemmeno lui pensava che cadesse. Ma tutti pensavano che prima o poi sarebbe accaduto qualcosa. Si sapeva che erano in atto dei movimenti, ma non si osava sperare tanto. Il fatto che sia avvenuto in un modo imprevisto, non deve farci dimenticare il contesto. Il contesto era quello in cui stava crollando un po' tutto. L'improvvisazione del portavoce della DDR che fece un pasticcio, annunciando in conferenza stampa qualcosa che doveva essere dato con gradualità (liberalizzare i visti, meno stretta sui permessi) è indicativa del clima. Da un lato il crollo fu dunque imprevisto, dall'altro sapevamo che nella DDR come in tutti gli altri Paesi stavano saltando i regimi.

Era saltato il regime in Polonia, in Ungheria c'era un partito comunista al potere che si stava desocializzando e, poi, i Paesi che resistevano come la Cecoslovacchia e la Romania nel giro di due mesi sarebbero crollati…
In Cecoslovacchia, ad esempio, fu un effetto domino. Ma questo effetto fu preparato da un lavoro di scavo molto lungo e molto sofferto, da parte della dissidenza, soprattutto con alcuni intellettuali di Charta 77 come Václav Havel…

E come Václav Benda…
Certamente. Contemporaneamente il cardinale di Praga Tomasek spinse moltissimo. Era minoritaria, ma divenne un pungolo costante per il regime comunista.

Tutto questo era stato duramente represso dal regime cecoslovacco, uno dei più duri…
Ma esattamente una settimana dopo la caduta del Muro di Berlino, il 17 novembre, a Praga c'è una manifestazione. Che cosa succede? Succede che gli studenti, che come ogni anno commemoravano l'uccisione di un altro studente da parte del regime nazista, si trovano davanti a un clima inedito. La manifestazione divenne una mobilitazione. Non si presentarono le solite, poche migliaia di studenti. Si presentarono centinaia di migliaia di persone.

Divenne una manifestazione di protesta contro il regime comunista, non solo una commemorazione della lotta contro quello nazista…
Accadde però un fatto: questa grande manifestazione, che la polizia tentava di reprimere violentemente (pestaggi, idranti…), fu attraversata da una voce, “hanno ucciso uno studente!”. Nessuno sapeva se fosse vero o no, ma c'era talmente rabbia e voglia di cambiamento che quella manifestazione divenne movimento. E il movimento contro il regime andò avanti per tre settimane, fino al suo crollo.

Lei ha accennato al ruolo della Chiesa. Giovanni Paolo II fu un gigante, anche dal punto di vista politico…
Il Muro ha cominciato a cadere nel 1979, quando Giovanni II, per la prima volta è tornato in patria. Il viaggio del Papa in Polonia è fondamentale. “Non abbiate paura” fu lo slogan usato dal Papa. Uno slogan che per noi occidentali è rimasto tale, per i polacchi e per la gente che stava sotto un regime comunista divenne un invito concreto a non temere il potere. Giovanni Paolo II ha posto un inizio chiaro: ha cambiato le coscienze. Per questo, la rivoluzione che vediamo nel 1989 è stata preparata nel 1979. Ed è stata una rivoluzione morale.

Quando siamo forti dello Spirito di Dio, siamo anche forti della fede nell’uomo – forti della fede, della speranza e della carità – che sono indissolubili e siamo pronti a rendere testimonianza alla causa dell’uomo di fronte a colui, al quale sta veramente a cuore questa causa. Al quale questa causa è sacra. A colui che desidera servirla secondo la miglior volontà. Non bisogna quindi aver paura! Occorre aprire le frontiere! Ricordatevi che non esiste l’imperialismo della Chiesa, ma solo il servizio

Giovanni Paolo II, Cracovia 10 giugno 1979

Perché morale?
Morale vuol dire che partiva dal cuore dell'uomo, dove c'era un grande desiderio di libertà. Una rivoluzione morale divenne una rivoluzione non violenta. L'unica rivoluzione non violenta della storia che ha avuto successo.

Anche la caduta del regime dell'apartheid in Sudafrica fu una rivoluzione non violenta…
Ma gli antefatti – Mandela veniva dal terrorismo, poi ripudiato – furono violenti. Qui invece fin dall'inizio tutto si colora del segno della non violenza. Negli anni Ottanta e nel 1989 ho assistito a tantissime manifestazioni represse violentemente dalla polizia. Ebbene, mai e poi mai ho visto un solo atto di violenza da parte dei manifestanti.

Sono passati trent'anni… La Germania, la Cecoslovacchia non c'è più, l'Ungheria è una spina nel fianco dell'Europa liberale…
Spesso di leggono quegli anni, questi anni attraverso una lente banalizzata e banalizzante. Si dice “il mondo è diventato un solo catino in cui tutti si muovono”. È il sogno della globalizzazione felice, che in effetti dal punto di vista economico per molti anni ha funzionato. Però… questa globalizzazione così felice e così ottimistica si è inceppata.

Siamo stati ingenui?
Un po' sì. Di fronte alla globalizzazione, questi Paesi mostrano un elemento più profondo di crisi. Quando persone come Orban o come Putin parlano di crisi, non si rivolgono tanto al liberismo – perché in fondo ci tengono ai meccanismi del capitalismo o, nel caso di Orban, ai contributi dell'UE – quando al liberalismo…

Non a caso, Orban ha coniato il termine “democrazia illiberale”…
Il liberalismo è una concezione che rifiutano. La rifiutano perché vorrebbero tornare a all'idea di nazione e di popolo del 1989. Comprendo molto bene la loro reazione e dobbiamo stare attenti, bisogna capire prima di condannare. Mentre capisco ben poco la loro risposta alla globalizzazione. La globalizzazione non è stata felice, bisogna reagire. Ma in questi Paesi, penso sempre, in particolare, all'Ungheria, vengono avanzate idee di nazione, di popolo o di comunità che non sono più quelle cose di cui parlava Giovanni Paolo II. Sono ripiegamenti su se stessi, identitari in senso becero. Sono comunità chiuse. Altri muri, altri muri sui muri. Giovanni Paolo II parlava di nazione, ma ricordava che la patria è un tesoro che va esteso a tutti. È in atto una corruzione delle parole – nazione, patria, comunità, popolo – che richiede, ancora una volta, una nostra reazione. Una reazione morale.

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