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Il muro del 66 per cento

La legge del 1997 e la circolare del Ministero delle Finanze riducono la possibilità di gestione nelle aziende non profit.

di Giorgio Fiorentini

Perché non aprire il dibattito sulla compatibilità giuridico-funzionale di un’attività commerciale preminente dell’azienda non profit (anp) rispetto all’attività essenziale e caratteristica dell’anp stessa nella sua dimensione anche di Onlus? Ovviamente senza che l’anp perda la qualifica di ente non commerciale ed esercitando attività connesse i cui proventi possano superare “il 66 per cento delle spese complessive dell’organizzazione”.
Una premessa fondamentale è che l’anp è strumento operativo economico che gestisce tutte le risorse possibili, scarse per definizione, raggiungendo i fini statutari dell’istituto – organizzazione non profit in logica di efficienza operativa, efficacia di risultato ed economicità. Il tutto in una dimensione unitaria, perdurabile nel tempo e coerente nel rapporto fra strumenti-fini tipici dell’anp. Considerando quindi che le aziende possono essere caratterizzate da fini, aventi pesi diversi, sia di tipo economico che sociale.

L’attività essenziale
Se si accoglie questa definizione l’anp non può gestire la propria attività con vincoli di “ispirazione burocratica deteriore” sull’acquisizione di proventi, perché ciò creerebbe una sorta di “handicap” gestionale che renderebbe, sempre e comunque, l’anp come residuale nel sistema economico esistente. Chi afferma che non porre limiti alle modalità di gestione commerciale crea situazioni di possibile “opportunismo economico e fiscale”, deve riconoscere che, pur in presenza di “paletti” rigidi normativi, continuano a perpetuarsi “crimini economici e fiscali” anche nel settore profit.
Nell’art.1 del decreto 460/97 si legge: “L’oggetto esclusivo o principale dell’ente residente è determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto. Per oggetto principale si intende l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto”. In logica economico aziendale, questa affermazione giuridica vuol dire che l’oggetto principale dell’attività dell’azienda non profit “si rappresenta” nel risultato ottenuto dall’insieme dei fattori che partecipano alla gestione operativa dell’azienda e tali da suscitare modalità di migliore combinazione dei fattori/risorse (esistenti o acquisite) e si stabiliscono i vincoli e le opportunità che collegano le operazioni aziendali in processi dinamici e in combinazioni finalizzate all’oggetto principale ed esclusivo. “Ma è parimenti chiaro che la struttura dell’organismo aziendale, le attribuzioni, la capacità, la remunerazione, ecc. delle persone che lo costituiscono, tendono pure a determinare le possibilità e le modalità di attuazione dei processi e delle combinazioni produttive. Tendono, in altre parole, a determinare le caratteristiche della gestione stessa.”
In sostanza si vuole affermare che “l’attività essenziale” dell’anp è configurabile nell’“attività caratteristica” dell’azienda stessa, ed essa si può definire come l’insieme delle attività e delle operazioni di gestione che identificano e caratterizzano la funzione economico-tecnica tipica di ciascuna azienda in una finalizzazione che nel nostro caso è l’oggetto principale dell’anp.
Per le imprese (cioè quelle profit) la gestione caratteristica riguarda: l’acquisto di materie prime, di impianti, di macchine e attrezzature, la trasformazione tecnica, la vendita dei beni prodotti, i pagamenti, le riscossioni, etc. Nelle aziende famigliari la “gestione caratteristica” include l’insieme di operazioni di consumo: acquisizione di beni e servizi sia privati che pubblici, trasformazione, manutenzione e impiego per il soddisfacimento dei bisogni delle persone componenti la famiglia. Quindi, le diverse gestioni (caratteristica, patrimoniale, finanziaria, tributaria), costituiscono le fonti primarie da cui scaturiscono i flussi reddituali dalla cui analisi è possibile formulare un giudizio sulla potenzialità di reddito dell’impresa. Se il reddito netto proviene fondamentalmente da quello operativo della “gestione caratteristica” si ritiene che l’equilibrio conseguito si fonda su basi abbastanza solide, tanto da considerare il reddito netto prodotto come un valore che almeno nel breve periodo possa permanere.
Diversa è la situazione nel caso in cui tale reddito si conseguisse mediante un modesto reddito operativo della gestione caratteristica e un elevato componente straordinario (per esempio una plusvalenza). In tal caso, non è possibile esprimere un giudizio positivo sulla potenzialità di reddito positivo dell’azienda.
Da ciò deriva l’integrazione necessaria fra attività caratteristica e accessoria come condizione di perdurabilità e continuità aziendale a cui non sfugge l’anp. Infatti nello specifico dell’anp l’area della “gestione tipica o caratteristica” riguarda il risultato gestionale che si ottiene per confronto tra proventi di quote e contributi, proventi netti da “fund raising” e da attività tipica, erogazioni istituzionali e attività di supporto generale. Quindi si caricano tutti gli oneri di supporto generale sulla “gestione tipica” dell’anp, valutandone la capacità di finanziare le proprie attività istituzionali e la propria struttura attraverso la raccolta di contributi e la gestione di servizi. Inoltre, se consideriamo l’anp quale “azienda di erogazione o di consumo”, è evidente che l’attività essenziale per raggiungere i fini statutari sia una ulteriore combinazione di “attività principali e caratteristiche nonché accessorie” che partecipano al conseguimento del risultato.

La liberalizzazione
Queste considerazioni sulla “liberalizzazione” dell’attività gestionale governata dell’anp sono anche correlate alla prevalente finalizzazione delle attività. Costringere le anp, che già sono mosse da motivazione e volontà spesso superiore a quella fisiologica delle aziende tradizionali, a dover ulteriormente sacrificarsi per gestire le proprie azioni di finanziamento, mi pare abbastanza punitivo da parte dello Stato. Ma quali vantaggi comporterebbe questa liberalizzazione?
– evitare che in nome della eticità e della moralità degli obiettivi si trovino delle vie alternative per aggirare il limite del 66% delle spese complessive dell’organizzazione. Peraltro anche il fatto che questa regola valga per ogni settore di attività dell’anp, e non possa essere gestita in modo consolidato, contrasta con l’accezione economico aziendale dell’unitarietà dell’azienda che ha permesso al dinamismo imprenditoriale di gestire a medio lungo periodo attività di successo, scontando che all’inizio di una nuova e specifica attività si debba anche avere una quota di costi/investimenti che devono essere coperti da proventi superiori al “fatidico 66%”;
– una capacita’ di “governance” gestionale nell’anp nei confronti dello Stato permetterebbe ad esso di trovare un “filone” reale di diminuzione del debito pubblico con risultati di eccellenza socio-economica, gestiti senza rilevanti contributi statali o con efficacia maggiore in logica di costi – ricavi e di costi – benefici;
– lo Stato, anziché essere destinatario di richieste, in logica assistenziale, svolgerebbe un ruolo prevalente di regolatore nonché di “governance” tale da coordinare al meglio l’integrazione fra pubblico e privato profit e non profit. Le anp dovrebbero assumere un ruolo chiaro e strutturale rispetto al “sistema Paese” dimostrando, con trasparenza e con acquisizione di professionalità gestionale, la capacità di avere un equilibrio imprenditoriale che coniuga le tecniche di finanziamento con i principi dell’orientamento ai risultati.
In conclusione, per le aziende non profit vale l’affermazione del prof. Borgonovi in base alla quale l’azienda è intesa come “sistema di operazioni guidate da criteri economici. Criteri da considerare strumentali, quindi subordinati, rispetto ai fini istituzionali”. Si deve, dunque, parlare di aziende non profit per mettere in evidenza che i processi di acquisizione dei mezzi economici, del loro impiego nei vari processi tecnici, di cessione dei beni e servizi prodotti, di trasferimento dei mezzi per fini sociali, devono attuarsi secondo i principi di efficacia delle risposte ai bisogni, efficienza nell’impiego delle risorse, economicità della gestione, tradotti in metodi e tecniche utilizzate dalle imprese e, a volte, dalle amministrazioni pubbliche.
A fronte di queste considerazioni i vincoli, della 460/97 e della circolare Ministero Finanze n.124/E del 12 /05/98, potrebbero “andare un po’ stretti” e sarebbero controproducenti per lo sviluppo del Terzo settore come “dato di realtà” del “sistema Paese Italia “.
Giorgio.Fiorentini

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