Cultura

Il mondo di Amélie è un puzzle di contraddizioni. Come il mio

Dalle pagine di Mercurio a un abbraccio

di Redazione

Un genio che scaturisce dalla multiculturalità. Un percorso
alla costante ricerca di un’identità. Nei romanzi della Nothomb
ho trovato un po’ della mia storia. E quando ci siamo incontrati…di Ouejdane Mejri
Certi libri si leggono decine e decine di volte, altri si iniziano e non si finiscono mai. Il rapporto che ci lega ad un libro non dipende solo dalle sensazioni che esso genera in noi ma soprattutto da come noi lo rielaboriamo quasi riscrivendolo nella nostra mente e attraverso il nostro sguardo. Come il metallo da cui trae il nome, Mercurio, il settimo romanzo di Amélie Nothomb, potrebbe causare irritazioni e generare intossicazioni se ci si espone in modo cronico.
Conosco la trama ma la curiosità morbosa di chi cerca altro in ciò che conosce mi ossessiona, ora che ho incontrato lei magari riesco a vedere qualcos’altro in ciò che scrive. C’e sempre dell’autore in ciò che redige come c’è del pittore in ciò che dipinge. Ho incontrato Amélie quest’inverno a Milano, fu un incontro intimo. Eravamo alla Fnac, qualche decina di fan italiani ed io tunisina. Mi misi in prima fila accostata al muro con la macchina fotografica in mano, sapevo che non amava farsi fotografare ma avevo intenzione di chiedere prima di farlo. Non sono mai stata fan di nessun cantante né di altri artisti e mi sono scoperta quel giorno patita, eccitata, emozionata alla vista di quel cappello nero stravagante, di quel viso bianco con un’unica macchia rossa sangue del rossetto rouge baiser. Amélie sembrava una geisha ed io ero allibita dalla serenità che emanava. È stata spesso criticata in Francia per la leggenda secondo la quale mangerebbe frutta marcia, per i suoi cappelli o le sue dichiarazioni folli, per le sue origini sociali aristocratiche, il suo stile di scrittura oppure per i suoi temi. A me piace invece come affronta il rapporto con il suo corpo, la sua anoressia che si trasforma in una bulimia di parole e il suo modo di mettere la morte allo stesso livello della vita.
Mi riconosco nella scrittrice come mi riconosco nei suoi romanzi che completano, ad ogni pubblicazione, il puzzle della sua vita tra il Giappone dove nasce, la Cina, il Bangladesh, New York e la Birmania dove cresce per poi tornare in Occidente, in Belgio, terra delle sue origini. Dall’Oriente all’Occidente, il suo viaggio mi ricorda il mio: dal Sud del Mediterraneo verso il Nord. È impressionante pensare che abbia iniziato a scrivere per colpa della sua totale solitudine. Il suo ritorno in Belgio, all’età di 17 anni, fu uno choc sociale e culturale e si trovò incapace di comunicare con i giovani occidentali. È alquanto strano pensare che ogni volta che torno nel mio Paese di origine mi sento incongrua e poi altrettanto inadeguata in Italia al termine del mio viaggio. Questi salti tra culture fanno tanto bene quanto male per chi li prova. Le differenze fanno riflettere e tante domande sorgono spontanee a chi di identità ne possiede più di una. I quesiti portano a scelte da fare ma spesso sono solo strappi da una o l’altra cultura. Mi piace di Amélie come restituisce l’esotismo della cultura giapponese senza mai ricorrere agli stereotipi. Ammiro il suo modo di raccontare l’amore come non l’ha mai fatto nessuno prima di lei. Me la immagino calata nell’angolo del suo divano beige, nel suo minuscolo appartamento di Bruxelles, che scrive i suoi romanzi folli con la sua biro Bic. Folle è il suo modo di vedere se stessa attraverso i suoi personaggi che amano odiando e che odiano amando, che si ingozzano senza mai sfamarsi o che si suicidano rimanendo vivi.
Alzo la mano per fare la prima domanda all’autrice. Invece di chiedere qualcosa sul romanzo che presentava, faccio una domanda diretta a lei, sul perché della presenza di così tanti personaggi femminili nei suoi libri, donne fragili ma nel contempo così forti e se sono riferimenti autobiografici. Amélie esplode in un riso franco e spontaneo e mi risponde non tanto con le parole sfuggenti che pronuncia ma con uno sguardo pieno di intesa, come per dirmi, «ho capito quello che intendi e hai ragione». Al termine dell’incontro, al classico momento di firme degli autografi mi metto ancora prima della fila. Presento la mia copia del libro e mi rendo conto in quell’istante di aver perso tutta la mia eloquenza da docente universitario. L’unica parola che pronuncio è «Ouejdane» in risposta alla richiesta di nome dell’autrice che alza il volto e mi chiede le mie origini. Rispondo in francese che sono tunisina e che volevo ringraziarla per tutte le emozioni che ha risvegliato in me con i suoi romanzi. L’autrice che, secondo le sue dichiarazioni, non sopporta il contatto fisico, si alza e mi abbraccia. A quel punto realizzo che la mia ammirazione per lei è dovuta solo e soltanto alle mille contraddizioni che animano il suo personaggio e i suoi scritti. In Mercurio scrive che «il silenzio è più rumoroso di tutto», «che i morti servono solo ad amare di più i vivi» e che «i sogni sono crudeli perché ci fanno intravedere meraviglie per poi privarcene». Afferma anche che «la parola emancipa» e che «bisogna ammirare le persone che sono capaci di essere felici». Antinomie che risiedono in un’unica persona con mille sfaccettature, frutto di una multiculturalità che ha generato il genio.

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