Welfare

Il mondo al contrario del direttore-detenuto

I 17 giorni dietro le sbarre di Adolfo Ferraro, capo dell'Opg di Aversa

di Redazione

Dopo oltre 30 anni di esperienza, in poco più di due settimane «ho imparato regole e rituali di cui non sapevo nulla e sono diventato amico di un omicida albanese» Dall’altra parte del mondo ci è andato per davvero. Ma senza mai mettere piede nella sognata Patagonia. Per vedere la terra sottosopra gli è bastato girare l’angolo della sua casa napoletana per ritrovarsi a Secondigliano. Reparto T, quello dell’isolamento. Ci è rimasto per 17 giorni. Quanti ne avrebbe passati in Antartide. «In viaggio la scoperta non è vedere posti nuovi, ma avere nuovi occh, diceva Proust, ed è quello che è successo a me». La secchiata d’acqua ghiacciata è arrivata alle 3 e mezza del mattino del 20 gennaio, quando alla porta di Adolfo Ferraro, 58 anni, si sono presentati i carabinieri. Ferraro è un nome noto. Da trent’anni lavora nell’Opg di Aversa, di cui oggi dirige il reparto sanitario. A timbrargli il passaporto per il viaggio che non avrebbe mai voluto fare – tramite ordinanza di custodia – è stato il giudice Aldo Esposito. L’accusa – poi rivelatasi infondata – era quella di aver favorito la latitanza di un camorrista. «La vera arrabbiatura di tutta questa storia è che il mio essere psichiatra “non omologato” – non prescrivo necessariamente farmaci – è stato recepito come una modalità collusiva». Ma questo è l’unico sassolino da togliersi dalle scarpe, perché per il resto «è stata un’esperienza molto utile».
Vita: Possibile? Lei il carcere avrebbe dovuto già conoscerlo bene…
Adolfo Ferraro: E invece no.
Vita: Come no?
Ferraro: A Secondigliano ci ho anche lavorato e quando sono arrivato conoscevo tutti. Dal direttore all’ultimo degli agenti. Eppure ero una specie di novellino.
Vita: In che senso?
Ferraro: La carcerazione è il rumore dei cancelli, la tristezza del pasto, la luce al neon giallo che si accende fuori appena fa buio. È la solitudine della sera quando alle 19.30 ti dicono «buonanotte», perché alle 20 il blindato si chiude, e ti fa una gentilezza la guardia che ti lascia accesa la luce nella cella, almeno fin quando non ti vedrà dormire dallo spioncino dal quale, con frequenza, ogni notte ci infila la luce della pila per essere sicuro che dormi e non ti sei ammazzato. È una esperienza molto dura, che io mi sono potuto permettere di superare solo utilizzando i mezzi della mia professione. Ci sono regole e rituali di cui non sapevo nulla.
Vita: Mi fa qualche esempio?
Ferraro: La solidarietà tra i detenuti – ho imparato – è una condizione frequente: quando mi vedevano non prendere il cibo mi mandavano scatolette e vaschette di marmellata, e la sera il mio amico albanese Petrit, omicida preterintenzionale, mi chiedeva se avevo sigarette per la notte, e quando supponeva che io non ne avessi, mi buttava sul letto un pacchetto di Diana rosse. E non potevo rifiutare. In galera non bisogna mai rifiutare il caffè che ti offrono, è segno di diffidenza e quindi di qualcosa da nascondere. In galera poi non bisogna mai camminare in pubblico con le mani dietro la schiena o – peggio – nelle tasche: è un segno di superiorità che si vuole dimostrare agli altri e questo la polizia penitenziaria non te lo fa passare. E quando li incroci nei corridoi in gruppo che si danno i cambi, ti devi accostare al muro e lasciare la parte centrale del corridoio a loro. La galera è fatta di tempo e di attesa. La mia esperienza limitata non mi permette di esprimermi sul suicidio in carcere, ma ho capito , anche se molto alla lontana, quello che ti assale quando pensi di non avere più speranze. Non sono arrivato a quel punto, ma non potevo certo stare lì solo ad aspettare.
Vita: Quindi cosa ha fatto?
Ferraro: Ho provato a stravolgere tutto. A incominciare dai nomi. Il corridoio su cui si affacciavano le celle è davvero tremendo, così l’abbiamo ribattezzato viale della Bruttezza abitabile. La piazzetta dove stavano le guardie era diventata Largo dell’errore giudiziario e la scala, la Scalinata dell’indulto perduto. Ad un certo punto sono diventato una specie di punto di riferimento per i detenuti.
Vita: Lei passa per essere già un direttore “progressista”. Questa esperienza cambierà il suo modo di guidare il suo istituto?
Ferraro: Quando sono uscito la cosa che mi ha sorpreso di più è stata la suola delle mie scarpe. Completamente consumata. Evidentemente pur stando rinchiuso in pochi metri quadrati praticamente tutto il giorno, ho fatto un sacco di chilometri. La vera riabilitazione è imparare a fare qualcosa. La differenza fra intrattenimento e trattamento è cruciale. Il primo è assistenzialismo. Cosa diversa è invece preparare gli internati al reingresso al mondo del lavoro. Impresa non facile, ma è l’unica strada possibile.

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