Welfare

Il mondo al bivio:processi o amnistie?

Antonio Cassese, già presidente della Corte dell’Aja per i crimini nell’ex Jugoslavia, non ha dubbi: solo giudicando i colpevoli si può uscire dal tunnel dell’odio. E tornare a vivere in pace

di Roberto Copello

Dal Ruanda al Sudafrica, dall?Argentina alla Cambogia, dalla Bosnia all?Ulster, per arrivare all?Italia delle foibe e delle Fosse Ardeatine, l?umanità sempre più si trova davanti a una domanda già posta per i genocidi degli armeni, dei curdi, degli ebrei: come chiudere i conti col passato e convivere in pace? Che cosa è meglio? La vendetta o il perdono? Ricordare o dimenticare? Amnistiare o processare? Quale via conduce fuori del tunnel dell?odio? Lo abbiamo chiesto al giudice Antonio Cassese, vice presidente della Corte istituita all?Aja dall?Onu per i crimini nell?ex Jugoslavia, e che ha presieduto per quattro anni. Nessuno meglio di Cassese può giudicare il Tribunale penale internazionale che dovrebbe essere istituito a Roma fra giugno e luglio. «Finalmente», spiega Cassese, «si potranno giudicare tutti i genocidi, colpendo i crimini di guerra e contro l?umanità dovunque siano perpetrati. Mentre i Tribunali Onu dell?Aja e di Arusha possono occuparsi solo dei crimini nell?ex Jugoslavia e in Ruanda». Il governo ruandese però, con le esecuzioni dei giorni scorsi, ha già cominciato a fare da sé… «È perché pretendeva che il Tribunale Onu condannasse a morte. Invece è un grande dato di civiltà che il Consiglio di sicurezza l?abbia proibita. Per noi qualunque sia il reato la pena di morte è inammissibile e la massima pena è l?ergastolo». Quanti processi avete celebrato finora all?Aja? «Ne abbiamo conclusi due ed entro fine anno dovremmo ultimarne altri sei. Ma siamo sommersi di lavoro. Purtroppo abbiamo una sola sala per le udienze, ma presto ne avremo tre. Anche il carcere di Scheveningen è al completo: solo 24 celle per 26 detenuti in attesa di giudizio, e quindi dobbiamo utilizzare le celle di un carcere olandese. Per uno dei due condannati la sentenza è già definitiva perché ha rinunciato all?appello. Sarà trasferito in un carcere di uno dei tre Paesi che hanno accettato di ospitare i criminali di guerra: Italia, Finlandia e Norvegia. Purtroppo l?Italia non ha ancora ratificato la decisione presa dal ministro Flick quando un anno fa firmò l?accordo con l?Onu qui all?Aja. Manca l?autorizzazione del Parlamento italiano. Le cose sono sempre lente in Italia, primo Paese a fare un accordo poi purtroppo rallentato dalle solite remore burocratiche e dalle procedure interne. Invece in Finlandia e Norvegia – arrivati dopo di noi – l?accordo è entrato in vigore subito. Peccato…». E il Tribunale penale internazionale? «Innanzi tutto bisogna sperare che venga istituito… Ci sono molte remore da parte di Usa e Francia. Ma se a Roma non ci fosse fumata bianca, servirebbe una seconda Conferenza diplomatica. Sarebbe una jattura. Il lungo testo base da discutere a Roma è pieno di parentesi quadre per ogni articolo, a indicare i punti di disaccordo: ci vorrà un lavoro forsennato e un fortissimo impegno di tutti i delegati per arrivare a un?intesa. Poi serviranno molte ratifiche nazionali. Insomma, una strada in salita». Quale la soluzione migliore dopo un genocidio? «Le commissioni di riconciliazione possono servire in situazioni limite, come Sudafrica o Salvador. Sennò, più che ai colpi di spugna, credo sia sempre meglio il processo. Qui all?Aja un avvocato difensore ha affermato che se i crimini dei croati nella seconda guerra mondiale fossero poi stati puniti, se Tito non avesse messo a tacere molte cose, forse gli odii non sarebbero esplosi così. C?è molta verità in questo. C?è l?esigenza di far luce, non solo per punire qualcuno, ma per un processo catartico. Non si cerca solo se uno è colpevole o innocente, ma si scrive la storia, si fa qualcosa di utile per le generazioni future. Come è successo in Germania, con il riuscito processo di denazificazione. Stabilire la verità storica fa cessare odii e animosità». Dopo 50 anni si riaprono processi anche in Italia…. «Non mi scandalizzo, si doveva farlo subito. Spesso si preferisce dimenticare. Invece è necessario affrontare col bisturi il tumore. Prima o poi le cose vengono vengono fuori. Si guardi a Pol Pot: fosse stato portato in un?aula subito… Ora che è morto è più difficile definire il genocidio cambogiano. Per questo serve una Corte permanente, non composta dai vincitori come a Norimberga o a Tokyo, ma da persone elette dagli stati Onu, prima che sia commesso il crimine. Solo così si eviterà una giustizia unilaterale. La Corte non avrà potere retroattivo ma garantirà un?esigenza di giustizia, fondamentale anche per la prevenzione, per dissuadere dal commettere nuovi crimini contro l?umanità». ?


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