Non profit

Il Mondiale che non vedremo

In un mese il Paese arcobaleno si gioca il suo futuro

di Emanuela Citterio

Cosa nasconde il sipario dei Mondiali? Per capirlo occorre andare a mettere
il naso nei sobborghi più caldi delle città che ospitano la kermesse. Come ha fatto la nostra inviata. Scoprendo che la pentola del Paese di Mandela è sul punto di scoppiare. E il razzismo sta di nuovo mettendo a rischio la convivenza pacifica
fra i vari gruppi etnici

da Cape Town, Sudafrica
«Non lo so». Fra tutte le risposte possibili, è l’ultima che ti aspetti da un politico. Soprattutto quando si chiama Hellen Zille, a capo del principale partito di opposizione in Sudafrica, Democratic Alliance, premiata nel 2008 come miglior sindaco del mondo e ora a capo della provincia di Western Cape. Una donna paragonata per la sua determinazione ad Angela Merkel e, da qualcuno che guarda al passato, a Margareth Thatcher. «Ne valeva la pena, in Sudafrica, di investire una montagna di denaro pubblico per ospitare i Mondiali di calcio?». La domanda risuona per le strade di Cape Town assieme al grande entusiasmo per l’evento. La città è un misto di orgoglio e rivendicazioni. Le bandiere delle nazioni che si disputano la World Cup formano una galleria colorata su St. George Mall, la via centrale dei ristoranti e delle banche, la più frequentata dai turisti. Ma l’odore della disillusione attraversa i sobborghi e le townships, è alla porta di chi ha creduto alla magia dell’evento che cambia la vita.
Bisognerà aspettare, dice nel suo ufficio di Wale Street Hellen, Zille: «Dipende da come andranno i Mondiali. Se andranno bene come tutti ci attendiamo e il mondo avrà una percezione completamente diversa del Sudafrica, se cadranno gli stereotipi e la caricatura per rivelare un Paese moderno e capace di ospitare in modo efficiente un evento del genere, allora si potrà dire che ne è valsa la pena. Non so se le partite possano giustificare un investimento enorme come quello che è stato fatto dal nostro governo. Quello che resterà, questo è vero, saranno le infrastrutture e i cambiamenti abbastanza radicali che sono stati fatti nelle nove città che ospitano il torneo». Il Sudafrica ha trattenuto il fiato, nelle settimane e nei mesi che hanno preceduto la Coppa del mondo, tutti gli sforzi convogliati in vista di un unico evento. Fino all’ultimo, di notte e di giorno, sono andati avanti i lavori di migliorìa sulle strade, gli «ultimi ritocchi», come li ha definiti il governo. In totale si calcola che il Paese abbia investito cinque miliardi di dollari per essere pronto per la World Cup 2010, due dei quali solo per costruire i nuovi stadi e per adeguare le strutture sportive.

Visto dalla township
Nella township di Philippi, a Cape Town, la disoccupazione è al 70%. Qui si è sviluppato un progetto sociale e sanitario che lega la prevenzione dell’Aids con la lotta contro la violenza sulle donne e contro l’abuso di alcool e droghe. In mezzo alle baracche quattro locali in muratura formano il centro dove l’associazione locale Sizakuyenza accoglie le donne in cerca di aiuto. «All’inizio ci occupavamo solo di prevenzione e test dell’Hiv», spiega Notembiso Mevana, manager dell’associazione, «poi abbiamo capito che era necessario un approccio integrato, visto che questi tre fenomeni sono collegati: la disoccupazione porta all’esasperazione e all’uso sempre più frequente di alcool e droghe, il che si traduce in violenza all’interno delle famiglie e in abusi sulle donne, con il conseguente aumento del rischio di contrarre l’Aids». Philippi è una delle grandi township di Cape Town, ma è tra le più abbandonate e meno fornite di servizi. Qui il tasso di infezione da Hiv supera il 30%, in un Sudafrica che è il Paese con più ammalati di Aids del mondo – 5,7 milioni di persone, il 18,9% della popolazione adulta.
Adiacente al centro di Sizakuyenza l’ong italiana Cesvi ha aperto nel 2006 la Casa del sorriso, struttura temporanea di accoglienza per le vittime di violenza domestica. Anche a Philippi si parla della Coppa del mondo: «Da un lato c’è l’allegria portata dalla musica e dai colori che si vedono in televisione e per le strade del centro città», afferma Mariarosa Lorini, responsabile dei progetti socio-sanitari del Cesvi. «Ma c’è anche frustrazione: qui nella township non abbiamo avuto miglioramenti di infrastrutture e servizi. Si dice che il Sudafrica avrà un ritorno in termini di immagine, che attirerà nuovi investimenti e di conseguenza più ricchezza, e che tutto questo porterà beneficio anche nelle township. È quello che tutti speriamo, ma forse la World Cup è stata caricata di troppe aspettative».
«I Mondiali hanno fermato molti progetti sociali» sostiene Damian Synders, responsabile della comunicazione per la My Life Foundation, un’associazione che in diverse aree di Città del Capo cerca, con fondi limitati, di strappare i ragazzi dalla strada proponendo un percorso educativo. Anche Damian ha vissuto sulla strada da bambino e da adolescente, prima di incontrare un educatore che lo ha aiutato. Parlando con lui viene spontaneo osservare che nelle vie del centro di Cape Town non si notano ragazzi di strada come accade a Pretoria e Johannesburg, o in altre metropoli africane. Ed è un dato di fatto che negli ultimi anni la città ha fatto passi avanti anche per quanto riguarda la sicurezza e la lotta alla criminalità. Ma secondo Damian c’è anche l’altro lato della medaglia: «Questa è una città brava a nascondere le proprie ferite», dice.
Fra chi opera a livello sociale c’è il timore diffuso che dopo i Mondiali alcune tensioni, fra cui quelle xenofobe, riesplodano. Nel maggio del 2008 gli attacchi di neri sudafricani contro gli immigrati di altri Paesi africani hanno incendiato i quartieri poveri delle grandi città facendo in pochi giorni 60 vittime. A 16 anni dalla fine dell’apartheid, il “Paese arcobaleno” è una realtà in cui la diversità culturale (11 lingue ufficiali e tradizioni religiose e giuridiche derivate da tre continenti diversi) è ancora una sfida aperta.
Ha fatto scalpore un sondaggio dell’Istitute for justice and reconciliation, che ha rivelato che, a dispetto della lotta per la liberazione, l’apartheid esiste ancora “di fatto” nella società sudafricana: il 24% dei sudafricani durante la giornata non parla con una persona di una “razza” diversa, il 46% non socializza mai con persone di un’altra razza in casa propria o di amici, il 39% ritiene le persone di altre razze “inaffidabili” e il 59% trova difficile capire gli usi e i modi di fare degli altri. Qui non si fa distinzione fra rifugiati, immigrati irregolari o in regola da anni, sono tutti odiati allo stesso modo da chi li accusa di “rubare il lavoro” o addirittura “la libertà del popolo” per soddisfare i propri bisogni, come rivelato dai report sulle violenze del 2008.
Nella provincia del Gauteng il dipartimento dei trasporti ha chiesto ai Red Ants, un gruppo di guardie private, di “abbellire” le città attorno allo stadio di Ellis Park rimuovendo con la violenza gli immigrati. Alle critiche della società civile uno dei rappresentanti dei Red Ants ha risposto: «È la nostra terra e abbiamo il diritto di aiutare le autorità a sloggiarli. Se la municipalità ci chiede di distruggere questi scarafaggi lo faremo e raderemo al suolo le loro case». A Cape Town lo Scalabrini center, fondato dai missionari e gestito da un team internazionale di operatori e volontari, è uno dei pochi riferimenti per i rifugiati: «Siamo preoccupati», dice Daniele Boccaloni, coordinatore del centro. «Registriamo minacce sempre più frequenti verso singole persone o verso gruppi etnici. Nelle township e negli insediamenti di baracche c’è chi dice apertamente che dopo i Mondiali ci sarà un assalto agli immigrati e alle loro case per costringerli a lasciare il Paese».

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