Non profit

Il modello italiano che fa invidia a Cameron

di Redazione

«E chi lo dice che dovremmo prendere per oro colato
il progetto di Downing Street? Sull’imprenditorialità sociale non esiste un sistema più all’avanguardia del nostro. Non dimentichiamolo». La replica di Carlo Borzaga a Phillip BlondL’entusiasmo con cui un numero crescente di giornalisti e di esponenti del terzo settore sta accogliendo il progetto della Big Society lanciato dal primo ministro inglese (e ben illustrato dal suo consulente Phillip Blond sullo scorso numero di Vita) che prevede il coinvolgimento massiccio delle imprese cooperative e più in generale del settore non profit e dell’imprenditorialità sociale nell’erogazione di servizi pubblici, può essere giustificato, ma ha davvero bisogno di essere contestualizzato nel nostro Paese.

La “confusione” di Londra e…
Non c’è da stupirsi che queste notizie trovino spazio sui media in un periodo in cui le persone più attente e sensibili sono alla ricerca di idee per superare la crisi e soprattutto per salvare un sistema di welfare che pare destinato a subire progressivi tagli alla spesa. Ed è del tutto comprensibile che coloro che operano nelle organizzazioni di terzo settore italiane, abituati a essere trattati dalla nostra classe politica come degli “utili idioti” cui battere ogni tanto una mano sulla spalla senza uno straccio di politica di sostegno, vedano con piacere, e con invidia, che almeno in altri Paesi il lavoro dei loro colleghi è apprezzato e riconosciuto.
Ma da qui a sostenere che avremmo molto da imparare da queste esperienze ce ne passa, come si suol dire. E ciò non tanto perché le scelte di Cameron siano ancora molto confuse, le sue politiche contraddittorie (da una parte dice di voler sostenere il terzo settore e dall’altra taglia i fondi che il precedente governo aveva stanziato per le organizzazioni di supporto), le sue proposte normative in contrasto con la normativa europea sugli appalti. E neppure perché siano da condividere aprioristicamente le preoccupazioni dei sindacati, dell’opposizione, e anche di una buona parte dello stesso movimento cooperativo inglese circa il fatto che tutta la manovra sia solo un modo per scaricare i costi dei servizi, o parte di essi, sui lavoratori o sugli utenti.

…la nostra impresa sociale
Sono in realtà altre due le ragioni positive per approcciare almeno con sano realismo le proposte d’Oltremanica: la prima perché l’Italia ha già sviluppato, assai prima degli inglesi, proprie forme di imprenditorialità sociale ampiamente studiate da economisti e sociologi di quei Paesi, e la seconda perché ha fatto di queste nuove forme imprenditoriali un soggetto non semplicemente sostitutivo dell’intervento pubblico, come nella proposta di Cameron, ma nella maggior parte dei casi aggiuntivo.
Infatti con buona pace degli “esperti” che individuano la genesi dell’impresa sociale negli Stati o in Inghilterra, basta una veloce consultazione di un qualche motore di ricerca internet per dimostrare che il concetto è stato utilizzato per la prima volta negli anni 80 in Italia, tanto che viene pubblicata dal 1989 una rivista che ha appunto come titolo Impresa Sociale. Un approfondimento veloce del tema consente inoltre di scoprire che il primo Paese a dotarsi di una forma giuridica con le caratteristiche dell’impresa a finalità sociale è stato sempre il nostro, con la legge sulla cooperazione sociale, approvata dal parlamento della Prima Repubblica nel 1991. Un legge che è stata imitata in almeno altri 12 Paesi tra i quali il Giappone e la Corea del Sud. L’Inghilterra ha approvato una legge simile solo nel 2004 e negli Usa hanno cominciato a pensarci solo da un paio di anni con l’approvazione da parte di alcuni Stati di norme istitutive delle cosiddette “L3C”, le Low Profit Limited Liability Company.
Nel frattempo l’Italia ha anche approvato una nuova legge generale sull’impresa sociale che consente di creare imprese a finalità sociale utilizzando tutte le forme giuridiche previste dal nostro ordinamento. Ancora: il dibattito scientifico volto ad individuare caratteristiche, utilità e sostenibilità di queste forme di impresa è stato promosso e largamente sostenuto soprattutto da studiosi italiani.
Ma quello che più conta è che il modello italiano è diverso nelle sue finalità e nei risultati sia sociali che economici, oltre che nelle dimensioni raggiunte in poco più di trent’anni.
È diverso perché esso si è formato non per sostituire servizi pubblici più o meno funzionanti, ma per offrire servizi nuovi, non offerti né da istituzioni pubbliche né da altri soggetti privati. E se con il passare degli anni una parte delle imprese sociali (maggioritaria forse, ma sempre solo una parte) ha sviluppato rapporti di fornitura di servizi per conto terzi e su finanziamento della pubblica amministrazione non lo ha fatto sostituendo preesistenti servizi pubblici, ma a seguito di precise scelte delle pubbliche amministrazioni che hanno preferito non organizzare in proprio una serie di nuovi (e non di sostitutivi) servizi sociali. Da ciò deriva che la gran parte delle 13mila cooperative sociali oggi operanti in Italia, cui si possono aggiungere almeno altre 7-8mila organizzazioni di diversa natura che operano a tutti gli effetti come imprese sociali, con i loro milioni di utenti e le centinaia di migliaia di occupati, può essere considerata aggiuntiva e non sostitutiva. E sono tali soprattutto le quasi 4mila cooperative sociali di inserimento lavorativo, che occupano almeno 40mila lavoratori svantaggiati, garantendo loro stipendio e pensione; finanziandosi in media per il 50% sul mercato privato e per un 30% attraverso la partecipazione a gare pubbliche.

Il cortocircuito informativo
Queste osservazioni consentono di affermare che del modello proposto da Cameron c’è ben poco da copiare e che è meglio piuttosto salvaguardare il nostro, cercando di perfezionarlo estendendo ulteriormente il raggio di attività di queste imprese in altri settori di interesse collettivo. Ciò non significa che non ci sia nulla da imparare, anzi. Un primo insegnamento dovrebbe trarlo il nostro circuito mediatico: cercare di essere più attenti a quello che succede nel Paese reale e soprattutto cercare di apprezzare ciò che di buono sa esprimere anche in ambiti così delicati come quello sociale.

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