Cultura

Il mio viaggio nella memoria di pap

“Small word”, il primo romanzo dello svizzero Martin Suter: un percorso nella malattia trasformata in una macchina del tempo che ridà vita ai ricordi dell’infanzia.

di Carlotta Jesi

«Era come se di colpo fosse saltato su una macchina del tempo con cui risalire il passato. E questo mi affascinava». Niente allucinazioni, urla nella notte o improvvisi scoppi d?ira e violenza. Degli ultimi giorni di suo padre, malato di Alzheimer, Martin Suter ricorda soprattutto i lunghi viaggi nella memoria. Vere e proprie immersioni in un mondo che nessuno conosceva e che Martin poteva solo provare a immaginare: cos?è che produceva la gioia e la tristezza dipinte sul volto di suo padre? E cosa significavano i disegni con cui riempiva fogli su fogli cercando di raccontare ciò che, altrimenti, rimaneva impigliato in strane parole? «Un piccolo mondo», risponde oggi Suter. Che a sei anni dalla morte del padre è uno stimato scrittore svizzero ?immigrato? alle Baleari, e quei disegni li tiene ancora appesi nello studio della casa di Ibiza dove ha scritto il suo primo romanzo: ?Small world?, piccolo mondo. Il ritorno all?infanzia «Piccolo», spiega Suter, «perché Conrad Lang, l?eroe della mia storia, ha perso quasi completamente la memoria. Ma allo stesso tempo immenso perché alla sua mente continuano ad affiorare immagini e ricordi confusi nel tempo che qualcuno vorrebbe tornassero definitivamente in superficie e molti altri temono». Il perché rimane un mistero fino alle ultime pagine del libro che, pubblicato in Svizzera nel 1997, ha dato non pochi grattacapi a critici e case editrici indecisi se pubblicizzarlo e recensirlo come giallo, romanzo di costume, indagine sociale o epopea sanitaria. Un?etichetta di cui a Suter davvero poco importa: «non sono mai stato uno di quelli che ama i libri in cui il cui protagonista ha una malattia mortale: ciò che volevo raccontare è soprattutto la storia di una sfida contro l?oblio». La storia di un sessantenne, Conrad Lang, che proprio come il padre di Suter all?improvviso si ritrova indebolito e allo stesso tempo sostenuto da una forza che lo rende particolarmente ricettivo. «Una specie di ipnosi», spiegano i medici del romanzo, «che restituisce i ricordi della prima infanzia». Ossia proprio degli anni in cui Lang, figlio di due servitori poco abbienti ma cresciuto praticamente in simbiosi con un coetaneo molto ricco, potrebbe aver vissuto o visto qualcosa che la sua mente ha rimosso per anni. E ora, completamente scombussolata dall?Alzheimer che cancella filtri e senso del pudore, riporta a galla. «La trama è quella di un giallo», spiega lo scrittore, «solo che qui per risolvere il mistero nascosto da qualche parte nella vita passata di Conrad bisogna sviscerare il meccanismo con cui il suo cervello viaggia a ritroso nel tempo». Ossia guardare all?Alzheimer con occhi diversi: quelli di un figlio che, della malattia con cui il padre fa i conti ogni giorno, coglie non solo i terribili sintomi ma anche il mistero dei territori in cui l?Alzheimr conduce. E ne rimane sconvolto, certo. Comincia l?avventura della ricerca Ma Sutter trasforma il dolore in una ricerca che gli consente di comprendere e, in qualche modo, partecipare a quei viaggi nella memoria che al padre continuano a provocare emozioni e forse non sono solo una tragica manifestazione della malattia. Come è stato possibile? «Un giorno, quando la malattia era già in stadio avanzato, papà mi disse che suo padre era morto», ricorda Suter. «In realtà mio nonno era morto nel 1945 ancor prima che io nascessi. Dov?era la sua mente? E il suo cuore? Fu allora che cominciai a chiedermi dov?erano il suo cervello e il suo cuore mentre mio padre sedeva di fronte a me». E quel pensiero non lo abbandonò più. Era sempre da qualche parte nella testa di Suter che, proprio mentre il padre lottava contro l?Alzheimer, combatteva la sua guerra personale per riuscire a essere quello che aveva sempre desiderato: uno scrittore. «Che fossi destinato a scrivere», racconta l?autore di Small world, «lo sapevo da quando avevo 15 anni. Ma per il ventennio successivo, mentre lavoravo in pubblicità come inebriato dai guadagni e dalla bella vita, avevo continuato a dirmi che potevo aspettare ancora un po?. Fu solo a quarantadue anni, quando finalmente capii che il bene più prezioso si possa avere non è il denaro ma la possibilità di impiegare la giornata per fare qualcosa che ti piace, mi dissi che era giunto il momento». E l?idea su cui costruire il suo romanzo non si fece attendere. A ispirare Suter sono soprattutto i disegni del padre: schizzi colorati molto simili a quelli di un bambino in cui, tuttavia, la vecchiaia fa capolino da ogni parte. «Sul più enigmatico papà aveva scritto ?Palle di neve nel mese di maggio?», spiega oggi lo scrittore, «e se gli editori non le avessero giudicate troppo lunghe, quelle parole sarebbero state il titolo del mio libro». Per scriverlo Suter ha svolto una lunga attività di ricerca sulla malattia, soprattutto sui sintomi con cui si annuncia. E di questa fase preparatoria del romanzo spiega: «Non avevo alcuna intenzione di fare un libro che si va a comprare per commuoversi, sentirsi più buoni e anche più fortunati». Niente lacrime facili, insomma. E così è stato: sono i lettori, da soli e molto avanti nel romanzo, a rendersi conto che il protagonista è malato. A scoprire lentamente, proprio come avviene nella realtà, che la perdita di memoria, gli scatti di violenza e la confusione in cui cade improvvisamente quel loro parente e amico hanno un nome ben preciso: Alzheimer. Il gioco truccato del dottor Wirth A Conrad Lang la malattia viene diagnosticata sottoponendolo con un test che lui crede un gioco: «Limone, chiave, palla», continua a ripetergli il dottor Wirth, «riesce a ripetere queste parole una di seguito all?altra dopo di me signor Lang, ci riesce?». No, Conrad non ce la fa. E mentre il lettore comincia a chiedersi cos?è che disturba il protagonista del libro, cos?è che lo rende debole e indifeso come un bambino, lui risponde secco al dottore: «Se riuscissi a sapere che cos?è che non mi ricordo, sicuramente potrei farlo». Ma il dottor Wirth non è soddisfatto e incalza con l?aritmetica: quanto fa cento meno sette? E lo stesso numero sottratto a quattrocentoventitre? «Questo gioco», risponde Conrad convinto di non conoscere le regole con cui risolverlo, «è sleale». Sleale come la malattia che ormai si è impadronita di lui e come tutti coloro che, avendolo capito, non sanno se augurarsi che guarisca o che muoia. Sleali come tutti quelli che, nella vita o nella finzione, spesso rimangono totalmente scombussolati da un amico o un parente malato di Alzheimer che, per il suo bene o forse per il loro, arrivano a mentirgli. «Ma Conrad non è stupido», spiega l?uomo che nel ricordo e con l?affetto per il padre l?ha creato, «e a tutti risponde con l?unica frase che sembra in grado di mettere a posto ogni cosa, di recuperare il filo di una conversazione improvvisamente incomprensibile e a lui estranea: Small world, piccolo mondo. Se al tempo della malattia di mio padre avessi conosciuto e considerato l?Alzheimer come adesso, allora sì che avrei potuto veramente aiutarlo».


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