Formazione

Il mio teatro è un punto di domanda

Intervista alla regista Emma Dante

di Redazione

Se il segno dell?epoca è la confusione», scriveva molti anni fa Antonin Artaud, «vedo alla base di tale confusione una rottura tra le cose e le parole, le idee, i segni che le rappresentano… Il teatro, che non risiede in niente di specifico, ma si serve di tutti i linguaggi (gesti, suoni, parole, fuoco, grida) si ritrova esattamente al punto in cui lo spirito ha bisogno di un linguaggio per manifestarsi».

È da una necessità analoga che nasce, probabilmente, la ricerca di Emma Dante, fra le autrici e registe italiane più interessanti degli ultimi anni (ha già vinto due premi Ubu, un Golden Gral). Un teatro coraggioso e raffinato, spesso in palermitano, che si avvale di uno stile esteticamente innovativo ed è il risultato di uno sguardo nuovo e rigoroso. Sulla terra siciliana che non ha cura dei suoi figli. Sulla condizione umana, le sue incertezze e le sue ambiguità. Su fenomeni come la mafia, che mescola arcaismo e modernità. Con la sua Compagnia Sud Costa Occidentale, Emma Dante ha portato in scena la sua Palermo, città «della decorazione magnifica messa come corona allo sfacelo», la vita domestica e familiare con i suoi paradossi, i suoi cortocircuiti e le sue cattiverie (Carnezzeria), la claustrofobia di relazioni ossessive e ancestrali (Il festino), il potere mafioso così abile nel rigenerarsi, la non facile relazione fra maschile e femminile.

Vita: Del suo teatro sono state date molte definizioni – civile, di denuncia… Cosa ne pensa?
Emma Dante: A me le definizioni non convincono mai: quando definisci una cosa, paradossalmente non esiste più. È morta, non si fa più: ha finito di essere fatta. Una cosa se si fa non può essere definita perché appunto la si sta facendo. Il mio è un teatro in via di ristrutturazione sempre, quindi mai finito e non definibile. Rispetto comunque le definizioni. Per qualcuno è teatro civile, per altri di denuncia o teatro danza, per altri teatro di necessità. Per nessuno è teatro di parola. Su questo siamo tutti d?accordo. Lei vuole che io le definisca il mio teatro?

Vita: È un modo per chiedere la sua posizione all?interno della collettività…
Dante: Non penso che il mio teatro sia di denuncia. La prima cosa non è denunciare o giudicare ma aprire a me dei quesiti. Senza questa dimensione di scoperta, non avrebbe senso per me fare teatro. Sarebbe solo intrattenimento. Essendo una persona viva e ragionevole e al tempo stesso atterrita continuamente dalla sragionevolezza, ho bisogno di farmi più domande possibili, di mettermi in discussione. Individuo una domanda per la quale mi accorgo di non avere una risposta. In quel momento capisco che sono pronta a condividere questa domanda con altri. Dalla domanda nasce il mio teatro: grazie ad esso metto in circolo una domanda, che forse troverà risposta da parte di qualcun altro. Il pubblico diviene l?interlocutore al quale lancio il mio interrogativo. Se una risposta ci fosse già, non avrei bisogno di aprire il sipario...

Vita: Quindi il suo modo di fare teatro prevede una dinamica relazionale con il pubblico…
Dante: Richiede anche sincerità e umiltà, capacità di svelare gli ingranaggi. Io voglio condividere anche i trucchi. Non mi interessano i giochi di prestigio, ma il percorso: per me il teatro è aperto, scoperto, non è un fatto privato ma pubblico.

Vita: In questo senso diremmo civile?
Dante: Non c?è segretezza, anche se evidentemente ci possono essere dei piccoli segreti, che contribuiscono a creare il fascino. Sono assenti però le furberie. E per questo il mio teatro diventa automaticamente di denuncia: è un percorso fatto con gli attori allo scopo di rendere pubblica e condivisa la domanda da cui sono partita. E in genere è un mezzo per ragionare sul nostro presente.

Vita: Questo anche quando mescola l?analisi sulla mafia e la rappresentazione della famiglia, come in Cani di bancata?
Dante: Il mio spettacolo non è documentaristico, è semmai una rivisitazione poetica del fenomeno: anche quella che racconto non è un?ordinaria mafiosa, normalmente ha caratteristiche diverse. Per esempio, il capo non è mai una donna. Però guardo a questo fenomeno in un modo metaforico, alla sua crudeltà, alle gerarchie che crea, al vertice, al meccanismo degli affiliati che in qualche modo sostengono la piramide. Per questo nella scena finale di Cani di bancata mostro una struttura piramidale: una sorta di visione deformata della famiglia, la trasformazione moderna della mafia. Del resto nella cultura meridionale la famiglia è talvolta vista come qualcosa che chiude le persone. Le case possono nascondere anche tragedie che si scoprono spesso troppo tardi: genitori che chiudono in casa i figli perché sono omosessuali o disabili.

Vita: Accanto al tema della mafia c?è anche in questo spettacolo un discorso sui generi…
Dante: Sì, c?è una sorta di rovesciamento fra i due generi. Gli uomini hanno un cappello volutamente ricercato, non le coppole, non mostrano gli elementi maschili che appartengono all?iconografia tradizionale e alla simbologia mafiosa: i vestiti, l?impostazione della voce, gli atteggiamenti. Sono uomini molto più femminili del capo che in questo caso è una donna. Il maschile e il femminile si mescolano e si contaminano…

Vita: Questa è un?osservazione di carattere universale…
Dante: Sì, anche perché nella cultura familiare del Meridione, la donna – che non appare quasi mai – è il vero comandante in capo, è lei a decidere. Questa linea matriarcale è un po? in secondo piano ma al Sud è molto presente. La donna è la grande Rebecca di Cento anni di solitudine di Marquez: quella che non muore mai ed è come un albero secolare che ha le radici ben piantate.

Vita: Un albero ben dissimulato…
Dante: Sì. Il ruolo della donna è una specie di verità nascosta. Anche se stiamo parlando di mafia, cioè di un mondo molto maschile, in cui certamente le donne non sono invitate a discutere di cose importanti, sono loro quelle che si farebbero tagliare una mano pur di non tradire un segreto o svelare un nome.

Vita: Un atteggiamento molto determinato..
.Dante: Alla fine la cosa importante è paradossalmente riuscire a mantenere il segreto, essere fedeli fino in fondo. In questo la donna è molto più capace: non a caso sono pochissime le pentite, è difficile che confessino contro il marito o i figli…

Vita: Nella sua rappresentazione della mafia, sono assenti tutti i riferimenti all?iconografia ad esempio americana.
Dante: Anche a quella italiana: anche le nostre fiction come Il capo dei capi, che ha avuto tanto successo e che riflette un?impostazione secondo me degenerante: dare alla mafia e al mafioso questo alone di fascino. Già dal titolo si capisce che si ammicca a questo fenomeno, si cerca di rendere affascinante il male. Certo, l?umanità è attratta dal male, ma per me c?è male e male. Qualcosa come la mafia che si consolida all?interno della società e prevarica e succhia ciò che di buono ci può essere è un male che di sicuro non va esaltato. Oltretutto gli americani il cinema lo sanno fare. Il padrino è un film che rimarrà nella storia. Non posso dire lo stesso per molta produzione italiana.

Vita: Occorre demitizzare la mafia?
Dante: Certo, oppure ridicolizzarla, come ha fatto Roberta Torre in Tano da morire.

Vita: Però le figure arcaiche nel suo teatro sono presenti…
Dante: Sì, ma io cerco di riportare tutto al mio presente. Ciò nonostante mi piace usare dettagli che riportano a un tempo diverso. Ad esempio un vestito da sposa, le luminarie delle feste di paese. Sono elementi antichi che mi permettono di essere più contemporanea, di mettere in scena quel che sento la necessità di esprimere.

Vita: Lei ha citato come riferimenti Fellini e Ciprì e Maresco. In che senso?
Dante: Pur essendo realtà diverse, sono due mondi che prescindono dal cinema, nel senso che sono andati oltre. Fellini è più compiuto, la sua è poesia allo stato puro. Ma anche Ciprì e Maresco usano gli attori, senza civetteria e senza frivolezza. Come Fellini, vanno dritti al cuore e soprattutto ci turbano. Poi è chiaro che lo slancio e il risultato sono diversi. Accomunati dal fatto che sono percorsi artistici e creativi che hanno alla base una necessità.

Vita: Com?è l?Italia vista dal palcoscenico?
Dante: Io non faccio più l?attrice. Non so come sia l?Italia vista dal palcoscenico. Non giro più molto. Mi stanca. Lo facevo quando ero più giovane…

Vita: Ma se è giovanissima…
Dante: Ho compiuto 41 anni. E la stanchezza la sento. Mi piace stare con la compagnia, c?è un rapporto di grande fiducia, affetto. La vita e il teatro si incontrano: gli attori non sono degli ?scritturati?, tutti noi siamo persone che si sono incontrate e hanno costruito una storia, facendo una ricerca, immaginando un progetto. Ciò non toglie che mi stanco in tournée. Abbiamo nove spettacoli in repertorio, due realizzati ben otto anni fa e continuano a chiederli, anche dall?estero: il mio è un teatro molto fisico che può essere compreso anche da chi parla una lingua diversa…

Vita: Ma un?idea del nostro Paese l?avrà comunque…
Dante: Sì, certo. Ma non è bella. Io vivo in Sicilia che con l?Italia ha poco a che fare, mi sento mezza italiana e mezza siciliana, ma sono stanca di un Paese in cui si continua ad andare a votare, in cui si parla con tanta disinvoltura di fucili… Mi sembrano cose gravi. Alla fine di Cani di bancata ho usato un?immagine, quella di un?Italia capovolta: sarà didascalico quanto si vuole, ma per me è così… Il nostro Paese sta vivendo un brutto momento, simbolicamente capovolto. Del resto è una fase difficile anche per la Sicilia. Ma non voglio parlare della Sicilia.

Vita: E perché? Qual è il suo rapporto con la sua terra?
Dante: L?adoro. È una terra fantastica. Lei non sa cosa vuol dire alzarsi la mattina con tutto quel sole, quella luce, così violenta ma necessaria. Come si fa a non vedere tanta bellezza?

Vita: Quali sono i suoi ?autori? nel mondo del teatro o della letteratura?
Dante: il mio padre spirituale è anzitutto Kantor. Poi ci sono Antonin Artaud e Carmelo Bene. Sono totalmente moderni, che siano morti non è assolutamente secondario…

Vita: Progetti teatrali?
Dante: In maggio comincerò un laboratorio a Palermo. Un progetto che dovrebbe durare tre anni. È anche un modo per prendermi una pausa. Per non confezionare più. Come dicevo prima, la cosa che mi interessa non è dare certezze, ma sperimentare. Uno spettacolo può finire con l?assomigliare a una certezza, a un punto di vista; è qualcosa cosa che consegni. Io invece amo cercare di capire. In particolar modo con i giovani. Una cosa bellissima che diceva Pier Paolo Pasolini è che loro sono molto più avanti perché sono ignoranti. Questa cosa è vera. Da un certo punto di vista può essere una cosa pericolosa, ma da un altro è un?opportunità: quando fai ricerca, quando hai bisogno della tabula rasa per non farti vincere dalla convenzioni, per non farti divorare dai cliché, dalle cose che sai, i giovani sono incredibilmente più interessanti.

Vita: A Milano ha fatto le riprese di Cani da bancata. Andrà in televisione?
Dante: Sì, sarà trasmesso a Palcoscenico in ottobre. Per questo abbiamo rimesso in scena lo spettacolo con il pubblico. Perché volevano registrare con il teatro pieno. La cosa notevole è che, visto che la gente sapeva che c?era la televisione, si è data molto da fare: non abbiamo mai avuto applausi tanto calcati…

Vita: Gli spettatori hanno interpretato la parte del pubblico…
Dante: Senz?altro il modo in cui la televisione ha condizionato le nostre vite è deleterio. C?è una frase geniale che Beppe Grillo ha detto in un suo spettacolo. Sul palcoscenico, visto che c?erano tantissime persone, c?era uno schermo gigante perché anche le persone più lontane potessero vederlo. A un certo punto lui è sceso in platea e si è messo a parlare accanto a un signore, fra il pubblico. Lo spettatore anziché guardarlo visto che gli era di fronte, guardava lo schermo. Quando se n?è accorto, Grillo gli ha detto: «Io sono qua, io sono vivo, esisto, non sono quella roba lì» e intanto lo toccava. Io ho la fortuna di fare un lavoro che mi piace molto ma il mio teatro non è nei circuiti ufficiali, è importante sottolinearlo, quindi non subisco eccessi di popolarità: questo mi consente di gestire bene la mia ricerca e la mia integrità morale, e mi permette di continuare a elaborare un pensiero profondo sul mondo.


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