Non profit
Il mio Massimo
Il ricordo di Emanuela Citterio, giornalista di Vita e amica di Barbiero, il volontario scomparso in Venezuela
«Ok, facci sapere. Ti aspettiamo». È l’ultima mail che ho di Massimo nella posta elettronica. Risale al gennaio del 2007. C’era il World Social Forum a Nairobi e ne avevo approfittato per tornare a trovarlo. Mentre rileggo la sua frase essenziale me lo vedo davanti circondato dai bambini urlanti dello slum mentre mi stanno salutando, fuori dalla sua baracca “Baba Yetu” in mezzo a Soweto, una delle tante baraccopoli della capitale del Kenya. Massimo non amava le parole, accoglieva e basta. Non amava nemmeno i progetti di cooperazione, li faceva a forza. Le associazioni che l’avevano preso a riferimento si lamentavano della sua poca intraprendenza, del suo essere “estremo” nel condividere la povertà. Lui voleva solo stare, vivere in mezzo agli abitanti di Soweto: loro costretti, lui per scelta. Eternamente diverso da loro. Con lo spasimo di farsi uno con loro. I suoi occhi azzurri, bellissimi, si erano rattristati quando – qualcun altro – raccontava dell’aggressione subita giorni prima. Un gruppo di ragazzi erano entrati nella baracca dei volontari della Papa Giovanni XXIII picchiandoli e spogliandoli di tutto. Li avevano riconosciuti, erano giovani del quartiere con i quali avevano provato a cambiare le cose. Gli altri volontari, i visitatori, i giornalisti, se ne andavano, uno dopo l’altro. Lui è restato per dieci anni, senza cambiare più di tanto la realtà della baraccopoli, senza costruire scuole e ospedali. Solo un segno e una presenza. A Baba Yetu, la baracca che aveva voluto chiamare “Padre nostro”.
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