Mondo

Il mio Iraq, sognando le palme di Bassora

Il presidente dell’ong “Un ponte per”, da 12 anni fa avanti e indietro da Roma alla Mesopotamia. Dove ha lasciato il cuore e tanti amici da aiutare.

di Redazione

Il suo sogno è andare in Iraq “per vedere le palme di Bassora”. Detta così sembra una follia: la Bassora di oggi è una città che esce da un assedio, dove il bene più prezioso è l?acqua potabile e le medicine sono introvabili. Altro che palme! Un paradosso ancora più assurdo se pensiamo che questo sogno sta nella testa di uno che in Iraq c?è già stato 22 volte negli ultimi 12 anni, che conosce Bassora, Bagdad e il Kurdistan come Roma, la città dove vive e dove nel 1991 “con Vauro e altri amici”, ha dato vita a Un ponte per. “Partimmo con una semplice raccolta fondi, e oggi siamo un?associazione che in poco più di un decennio ha portato in Iraq aiuti per un controvalore di 6 miliardi di vecchie lire”, rivela il presidente Fabio Alberti, 46 anni, due figli e “volontario a tempo pienissimo”, come ricorda una sua collaboratrice, malgrado un impiego in Regione Lazio. Incontriamo Fabio a Milano, dove è arrivato per una ?toccata e fuga? in occasione di un incontro di presentazione del Tavolo di solidarietà con le popolazioni dell?Iraq. Fabio ha appena finito una telefonata fiume con Simona e Marinella, le due volontarie che sono a Bagdad (“stanchissime”). Si accende una sigaretta, ci diamo subito del tu. Vita: Cos?è questa storia delle palme? Fabio Alberti: Ormai conosco l?Iraq, ma per un motivo o per l?altro non sono mai riuscito a visitare bene Bassora, vorrei farlo, possibilmente senza correre il rischio di lasciarci la pelle, tutto qui. Vita: Quando ci sei andato per la prima volta? Alberti: Nel 1991, dopo la guerra del Golfo. Portavamo 100 milioni di aiuti che consegnammo all?Unicef. Un viaggio favoloso. Da Amman alla capitale irachena, 20 ore e 900 chilometri di deserto, mai uguali: prima sassi piccoli, poi sassi grandi, quindi deserto nero, poi rosso, infine sabbia. Vita: E a chi non piacesse il deserto? Alberti: Montagne e verde a nord, in Kurdistan, e palme a sud, vicino al confine con il Kuwait. Vita: Un posto da villeggiatura? Alberti: Magari. La Mesopotamia ti resta nella pelle. Sarà il fascino della storia e della cultura. Gli iracheni hanno una storia millenaria, ne sono consapevoli e te lo ricordano di continuo. Gente in gamba fiera e colta, in molti parlano inglese. Vita: Ti sei schierato apertamente contro questa guerra, ma i tuoi amici iracheni stanno meglio oggi o un mese fa? Alberti: Oggi, che domande? Un mese fa l?Iraq era un Paese del Terzo mondo, sotto embargo da 12 anni. Ma non è questa la domanda giusta. Vita: Qual è allora? Alberti: Se si sta meglio oggi, o si stava meglio nel 1990, quando gli iracheni avevano uno Stato sociale avanzato, scuole piene di bambini e ospedali pubblici con medicine e strumentazioni all?avanguardia. Vita: E di Saddam cosa ne pensi? Alberti: Non so chi sia. Vita: Non sei uno dei massimi conoscitori dell?Iraq sulla piazza italiana? Alberti: La storia non è mai fatta da singole persone. Nemmeno in una regione, Iraq compresa, dove il culto della personalità raggiunge vette impensabili. Io conosco il Saddam pubblico, il rappresentante di un clan al potere. Il dittatore e la pesantezza dei suoi controlli che coinvolgevano chiunque entrava a Bagdad, nessuno vi poteva scappare. Sono contento che non ci sia più. Ma sono comunque preoccupato per i miei amici iracheni. Vita: Intendi anche sciiti e curdi, loro non si saranno messi le mani di capelli per la caduta di Saddam? Alberti: Parlo di iracheni. Punto. Nessuno là ti viene a dire se è curdo, sciita o sunnita. Non ho mai visto un iracheno chiedere all?altro se fosse arabo. Vita: Mi stai dicendo che i curdi non avevano nessun astio verso gli altri iracheni? Alberti: No, nessuna litigiosità. I miei amici curdi ce l?avevano con il regime non con Saddam. Vita: 12 anni di Iraq. Come ti hanno cambiato? Alberti: Ho imparato a essere meno ideologico. Sono arrivato a comprendere che durante le guerre, durante gli embarghi, c?è gente normale che ci lascia la pelle. I miei amici.


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