Cultura
Il mio Emil, invisibile salvato dalla fantasia
La storia di un tredicenne rumeno in fuga attraverso lEuropa. Un inno alla curiosità, alla facilità di creare legami dei ragazzini. Raccontati da uno che li conosce molto bene...
di Irene Amodei
Non ha per niente l?aria dell?intellettuale perso nell?iperuranio, Fabio Geda. Il lavoro che fa, educatore in una comunità per minori torinese, non glielo permetterebbe. I piedi ben piantati per terra, l?orecchio teso all?ascolto, le parole sempre, o quasi, da scegliere, da dosare. Perché con l?uso non perdano di efficacia, e conservino, nel tempo, il potere del consiglio e del conforto. Da poco più di un mese Fabio Geda, 34 anni, ha pubblicato un romanzo. La sua prima incursione nella letteratura s?intitola Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani ed è edita dalla Instar. Esordio di lusso, il suo: il libro è stato ufficialmente presentato a Caserta al LXI Premio Strega da Valeria Parella e Diego De Silva. Non male per un esordio. «Perché l?editoria è fatta anche di gesti belli e generosi, non scordiamolo», commenta Geda con uno sguardo ancora esitante tra l?incredulo e l?entusiasta.
Vita: Partiamo dal protagonista, Emil Costantin Sabau, col «vento nei capelli e il mare negli occhi».
Fabio Geda: Emil è il tassello di un puzzle molto più grosso di lui. Un disegno così complesso che molti suoi coetanei ne vengono sopraffatti. Emil inserisce la sua storia personale all?interno di un contesto sociale, politico, famigliare che non lo facilita affatto. Anzi. Per venirne fuori deve inventarsi delle strategie, «facendo fuoco» con i mezzi che ha a disposizione. Questi mezzi – nel suo caso, forse, poveri per quantità più che per qualità – sono la curiosità, la fantasia, la capacità di entrare in contatto e di comunicare con chi gli sta attorno. Emil è un vincente. È il ragazzino che chi fa un lavoro come il mio si augura di incontrare un giorno lungo la strada. Scrivendone, e facendolo parlare in prima persona, ho cercato semplicemente di osservarlo, tentando di astenermi da qualunque giudizio. Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani in fondo non è che un romanzo. Contiene un nucleo di verità forte che però, poi, ho trattato con gli strumenti della letteratura. Non intendevo insegnare nulla. Volevo, prima di tutto, che la lettura della storia fosse un?esperienza coinvolgente.
Vita: Emil cerca il nonno per ritrovare, grazie a lui, il padre disperso in una prigione rumena. Cosa è, per lui, la famiglia?
Geda: Anzitutto un luogo di relazioni. Certo non un contratto. Forse un vincolo di sangue. Potremmo dire che, tra le relazioni, vince di norma quella che porta con sé anche un patrimonio genetico comune, oltre che culturale e affettivo. Ma non solo. Emil è in grado di fare famiglia con chiunque incontra. Tutti i ragazzini hanno bisogno di una famiglia, di essere protetti, di essere accuditi.
Vita: Affamato di radici, di identità, di legami solidi,verrebbe da dire di appartenenza, Emil scappa. Da che cosa?
Geda: Dall?anonimato, dall?invisibilità. Un minore straniero in terra straniera rischia di scomparire, di perdere fiducia in se stesso, di percepirsi come un soggetto sfocato in una foto di gruppo: non del tutto italiano ma neanche più soltanto rumeno, e comunque, volente o nolente, nell?impossibilità di ritornare a casa. Allora non resta che fare della strada la propria casa, e di chi la abita dei fratelli, degli zii, dei genitori a tempo determinato. Emil scappa anche da alcuni pericoli contingenti: nel suo caso un adulto italiano, benestante, un architetto, che lo accoglie con intenzioni, diciamo, non proprio limpide. Perché, tra le altre cose, conquistare la fiducia di un ragazzino, lo dico per esperienza, non è poi così difficile. Il problema è non tradirla. Donarsi a lui senza chiedere nulla in cambio. E non dico una sciocchezza affermando che è una delle cause principali del turn-over degli educatori all?interno delle cooperative sociali. Proprio ieri un?amica mi ha detto: lavoro con l?handicap, perché ti danno indietro tantissimo. I minori invece, spesso, non riescono ad articolare nemmeno le due sillabe della parola «grazie». Come se gli si annodasse la lingua in bocca appena cercano di pronunciarla. Forse perché grazie significa: senza di te non ce l?avrei fatta. Ed è vero. Ma è troppo doloroso ammetterlo. Perché, per loro, equivale a confessare una dipendenza e accettare la possibilità di soffrire in caso di un nuovo abbandono. Per cui la soluzione è piuttosto quella di dirsi: ho bisogno di te, ti uso, ma non mi affeziono.
Vita: Quella di Emil è anche una fuga clandestina attraverso le frontiere di un?Europa a tratti incantevole e poetica e a tratti violenta, caotica, inospitale. La sua vicenda ha le stesse coordinate di quella di migliaia di migranti nel mondo, eppure il suo nomadismo non è mai solitario e quasi mai disperato, per quanto le premesse non manchino…
Geda: Esatto. E con questo non voglio certo dire che non esistano esperienze di solitudine e disperazione nelle storie dei migranti. Ma il mio Emil riesce a tenere testa alla sofferenza, giocando le carte della fantasia e dell?ironia. Molti minori hanno accesso a risorse che noi adulti abbiamo perduto o dimenticato con il trascorrere del tempo, con il maturare della vita, e che pure, di tanto in tanto, continuerebbero a farci comodo. Penso, ad esempio, alla possibilità, magica per certi versi, di sfuggire la realtà aggrappandosi ad un mondo immaginario. Che poi Emil abbia questa capacità, lo deve anche al mio desiderio di scrivere una storia di speranza. Non consolatoria, ma capace di dare al lettore energia, voglia di provare a cambiare le cose, pur nella consapevolezza della fatica che tutto questo comporta. Mi spiego meglio. In comunità cerchiamo in continuazione famiglie disponibili a prendere in affidamento uno dei nostri ragazzi. Vorrei trovare in più persone lo slancio generoso di Raul. Chi è Raul? Beh, questo non ve lo posso dire, dovete leggere il libro?
Info: www.fabiogeda.it
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