Cultura
Il mio destino era fare il boss. E invece…
È stato rinnovato al Miur per i prossimi tre anni il protocollo d'intesa "Liberi di scegliere", che sostiene i percorsi di cambiamento dei minori che lasciano la Calabria e la propria famiglia per sperimentare un'alternativa di vita rispetto alla 'ndrangheta. Dal 2012 ad oggi sono già quasi 80 i ragazzi che hanno cambiato vita. Uno solo è tornato indietro. «La chiave del successo del progetto è l’esserci accorti che la ‘ndrangheta produce sofferenza non solo all’esterno ma anche all’interno delle famiglie», dice Roberto Di Bella
Il primo ragazzino ad andarsene si chiamava Giosuè. Aveva 16 anni e si era già fatto 10 mesi di carcere, perché«negli anni ’80, vivere in quei paesini della Calabria significava respirare l’odore della ‘ndrangheta». Nel carcere minorile di Reggio Calabria incontrò don Italo Calabrò e il suo Centro Agape: il programma “Liberi di scegliere” all’epoca non esisteva, ma il concetto sia don Italo sia Giosuè lo avevano chiaro: «Se si può uccidere una persona o programmare di ucciderla, allora si può anche decidere di cambiare vita. La ‘ndrangheta è solo una grande illusione. Ma il problema era proprio quello, sapere di avere la possibilità di scegliere». Giosuè oggi ha 48 anni e fa l’imprenditore agricolo in Piemonte. Sul numero di VITA di settembre ha raccontato la sua storia al collega Alessandro Puglia, il come e il perché a 16 anni, con davanti un futuro da boss, abbia deciso di salire su un treno per Milano con 500mila lire in tasca, con il preciso obiettivo di allontanarsi dall’ambiente che aveva sempre vissuto.
Il suo percorso è, ante litteram, il primo di quel “Liberi di scegliere” che poi sarebbe diventato un progetto e un protocollo. Ieri al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca è stata sottoscritta per un nuovo triennio l’intesa che vuole dare una opportunità concreta di cambiamento ai minori nati in famiglie inserite in contesti di criminalità organizzata della Calabria. A sottoscrivere l’Intesa sono stati il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Lorenzo Fioramonti, il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, la Ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, Federico Cafiero De Raho, Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Giovanni Bombardieri, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, Roberto Di Bella, Presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Giuseppina Latella, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria e Luigi Ciotti, Presidente di Libera.
Il Protocollo vuole offrire un sostegno educativo, formativo, psicologico ma anche logistico, economico e lavorativo ai minori nati nei contesti della criminalità organizzata della provincia di Reggio Calabria che desiderino affrancarsi dalle logiche della ‘ndrangheta. «Affrontiamo un tema molto complesso: come poter dare un’opportunità di vita alternativa a ragazzi e a ragazze che si trovano a nascere e a crescere in contesti familiari che non fanno il loro bene», ha sottolineato il ministro Fioramonti. I risultati di questo progetto, avviato nel 2012, di cui hanno già beneficiato un’ottantina di minori, sono stati già narrati anche in un film, “Liberi di scegliere”, con lo stesso nome del protocollo.
"Liberi di scegliere" ha mosso i suoi primi passi 20 anni fa, nel tempo è stato messo a sistema e storie come quella di Giosuè dicono che la strada è giusta: per dire no alla ‘ndrangheta, se non hai mai conosciuto un’alternativa ad essa, c’è bisogno di un aiuto. «Si tratta di offrire ai ragazzi che partono da condizione di svantaggio – perché nascere e crescere in famiglie di ‘ndrnghetisti è uno svantaggio – condizioni di parità sostanziale e culturale con gli altri, dare gli strumenti per permettere a loro di scegliere», mi raccontava a fine agosto Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria. «Abbiamo bisogno di far vedere che esiste una realtà diversa. Poi sceglieranno loro, ma almeno sanno che hanno un’alternativa, una possibilità di scegliere». È inutile cercare sinonimi: il punto è esattamente questo. «Se tutti i tuoi familiari sono intrisi di cultura mafiosa, non sai nemmeno che esiste una alternativa. Questi ragazzi non sono mai usciti da quell’humus culturale. Pensano che quella sia la vita normale, l’unica possibile. L’appartenenza alla cultura ‘ndraghetista non è percepita come disvalore».
Il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, nei casi di grave pregiudizio, «quando cioè il metodo educativo mafioso diventa ostacolo al normale sviluppo del minore», emana dei provvedimenti temporanei di allontanamento dalle famiglie, per tutelare i ragazzi. «Abbiamo adottato ormai poco più di 60 provvedimenti per 70/80 minori, ragazzi e ragazze. Quasi tutte le mamme ci stanno aiutando, abbiamo intercettato quasi un bisogno sociale, la richiesta di aiuto di molte donne, mamme provate dai lutti, dalla sofferenza, dalle carcerazioni… quando si rendono conto che la nostra logica non è punitiva ma di tutela, non si oppongono. Il 90-95% delle mamme non si sta più opponendo. Una ventina di mamme hanno deciso, anzi, di andare via dalla Calabria insieme ai loro figli. E grazie a protocollo d’intesa con Libera, la Direzione nazionale antimafia, la Procura di Reggio Calabria, il Dipartimento per le Pari opportunità e la CEI, che lo finanzia al 50% con i fondi dell’8 per mille, riusciamo ad aiutare i ragazzi che decidono di andare via e anche le loro madri, dandogli una sistemazione logistica».
Di Bella racconta frammenti di storie che commuovono. «Un solo ragazzo è tornato indietro, è stato condannato e adesso dal carcere ci chiede aiuto, “se vi avessi ascoltato…”. Appena finirà sua pena lo faremo, anche se non è più un minore. Qualche padre detenuto mi scrive dal 41bis: “vi ringrazio per quello che state facendo per i miei figli, avessi avuto io questa opportunità 20 anni fa…”. Abbiamo rotto un muro culturale. Soprattutto grazie alle donne».
Il Tribunale per i Minorenni a Reggio Calabria non è più nemico, ma l’ultima spiaggia nel mare della illegalità. «La sofferenza è la chiave del successo del progetto, l’esserci accorti che la ‘ndrangheta produce sofferenza non solo all’esterno ma anche all’interno delle famiglie». Per dargli gambe, cosa servirebbe ancora? «Una normativa nazionale con previsione di risorse e fondi, una adeguata formazione del personale coinvolto, ad esempio gli assistenti sociali e gli psicologi, famiglie affidatarie preparate… una forte sinergia con privato sociale. Per esempio c’è il tema dell’inclusione sociale e lavorativa per chi decide di andarsene».
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