Politica

Il mio 25 aprile, quando i miei genitori si sposarono

di Franco Bomprezzi

25 aprile 1949: Roberto Bomprezzi e Rosalia Viola si sposano a Firenze. Sono i miei genitori. Un anno dopo, il 25 giugno, nascerà Marco, mio fratello. Il 1 agosto 1952 toccherà a me scompaginare il destino di quel sorriso dolce e carico di speranza che arriva da quella foto in bianco e nero. Mio padre aveva 25 anni, allora. Mia madre 24. Tutta la vita davanti, e un liceo frequentato insieme, pur venendo da famiglie assai diverse. Semplice e dignitosa quella di papà (mia nonna era di Fiesole, un balzo di curve sopra la mia città natale, Firenze), borghese e severa quella di mia madre (mio nonno, azionista, medico militare, mi salvò la vita, appena dopo la nascita zeppa di fratture). Erano altri tempi, ma sono figlio, in qualche modo, del 25 aprile.

Ripenso oggi al loro coraggio. Sposarsi nel giorno della Liberazione, a pochi anni dalla fine dell’incubo. E avere quel sorriso pieno di amore e di speranza. Pur con pochi soldi e nessuna certezza del futuro. Diversi, anche come idee. Ma vicini e sicuri di potercela fare. Una generazione così ci ha portato fuori dalla melma e dalle macerie. Non erano eroi, ma semplicemente cittadini, pronti a lavorare e a costruire futuro. Appoggiandosi anche loro alle famiglie di origine (non ce l’avrebbero mai fatta altrimenti), ma determinati e responsabili, anche di fronte a imprevisti dolorosi, come la nascita di un figlio con disabilità fisica grave, a rischio di sopravvivenza.

Per noi dunque il 25 aprile è sempre stata una festa speciale, importante. Sintesi di una vita personale, familiare, ma anche di un percorso di popolo, collettivo. Il 25 aprile di tanti anni fa, forse il 1975, ho tenuto il mio primo comizio, a Noventa Padovana, alle porte di Padova, luogo di martiri della Resistenza. Avevo 22 anni, ero socialdemocratico, all’epoca di Saragat. Mi piaceva Willy Brandt. E quel programma concreto, del vecchio Saragat: case, scuole, ospedali. Già. Poi, nel tempo, scelsi la casa del socialismo, dopo lo scandalo di Tanassi (chi si ricorda adesso di Antelope Kobbler alzi la mano…). Entrai in consiglio comunale nel 1975, a Padova, a 22 anni, ne uscii 5 anni dopo, primo dei non eletti nel Psi. Vissi in Consiglio il momento del sequestro Moro, e favorii, assieme all’allora giovanissimo Flavio Zanonato (ora sindaco di Padova) la nascita del primo esperimento di larghe intese, l’astensione del Pci ad una giunta di centro sinistra, il cui sindaco era un avvocato democristiano. Da ragazzo pensavo di contribuire a cambiare il mondo, ma con buon senso. Un riformista, insomma. E ricordo ancora il rimprovero di un altrettanto giovane Pietro Folena: “Non dobbiamo essere riformisti, ma riformatori”. Lo guardai un po’ incerto, ammirato da tanta sicurezza terminologica.

Altri tempi, certo. Ma oggi, che è un 25 aprile snobbato dalla forza politica appena nata in Parlamento, oggi, che siamo chiamati tutti a raccogliere l’appello pressante e durissimo di un presidente della Repubblica che è diventato l’unico punto di riferimento rassicurante per l’intero Paese e per il mondo che ci guarda, ripenso al 25 aprile 1949, quando i miei genitori unirono le loro esistenze. Ora non ci sono più. Chissà che cosa penserebbero. Io devo loro gratitudine e ammirazione. Sono vivo perché loro hanno accettato di scommettere sul futuro, sulla speranza. E non hanno mai smesso, pur fra mille delusioni e preoccupazioni.

Ecco perché oggi vorrei che tutti deponessero le armi, abbandonando l’aggressività delle parole, rinunciando all’ipocrisia e al disimpegno. La libertà è figlia di quel 25 aprile. Di ogni 25 aprile delle coscienze. Ce la possiamo fare.

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