Salute

Il Ministero “cancella” gli psicologi ospedalieri

Il decreto sugli "standard ospedalieri" non prevede più la presenza di questa figura. In Italia è la terza voce di spesa out of pocket. Protestano le associazioni dei malati, e lanciano una petizione online

di Redazione

"In ospedale entrano persone, non corpi!". Non è bastata la petizione lanciata il 21 marzo (vedi qui) per convincere il Ministero della Sanità a un ripensamento della decisione di non prevedere nel decreto sugli standard ospedalieri l'attività di supporto e assistenza psicologica, che quindi non verrà più fornita dagli ospedali italiani. I circa mille psicologi ospedalieri di ruolo e gli altrettanti che li affiancano e che lavorano con contratti a termine spesso finanziati da associazioni di malati, cesseranno quindi ogni attività.

La denuncia arriva dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, da nove società scientifiche del settore oltre che dalle stesse associazioni di malati.

Nonostante che la “svista” sia stata prontamente segnalata dall’Ordine nazionale degli Psicologi nessuna marcia indietro del Ministero. Da qui, oltre alla denuncia delle società scientifiche e delle associazioni di malati, anche il lancio di una petizione (“non cancelliamo la psicologia negli ospedali”) che ha già raccolto molte migliaia di firme in pochi giorni. Il timore è che il provvedimento – che non ha giustificazioni economiche – passi alla chetichella in questo periodo di limbo della politica riportando l’Italia indietro di trent’anni.



«Lo psicologo ospedaliero», viene ricordato nella nota, «è presente in misura largamente insufficiente per assicurare interventi adeguati ed omogenei sul territorio nazionale, concentrati nella maggioranza dei casi negli ospedali del Centro-Nord». E che l’aiuto psicologico sia considerato molto importante dai pazienti viene confermato dal fatto che esso sia la terza voce di spesa, dopo badanti e farmaci non erogati dal Ssn, che i cittadini affrontano pagando di tasca propria. Gli esperti del settore lamentano che un approccio riduttivo alla malattia ha portato ad organizzare gli ospedali come luoghi dove si riparano corpi quasi alla stregua di macchine, dove si crede che medici ed infermieri possano lavorare come operai di una fabbrica. E dove i familiari sono più una complicazione che una risorsa.

Solo da poco tempo si è iniziato a parlare di “umanizzazione”, per ricordare che il malato non smette di essere di una persona, che non esiste la malattia in astratto ma individui, che sono diversi tra loro anche se hanno la stessa malattia. 

In ospedale, ricordano gli psicologi, entrano persone e non corpi, e questo è ancora più vero quando il paziente è un bambino. Ecco dunque che la capacità di comunicare, di relazionarsi, di ridurre lo stress e il disagio psicologico del paziente, di prepararlo e sostenerlo in passaggi difficili – attraverso la figura specialistica dello psicologo ospedaliero – diventano tutti aspetti importanti della cura.



Recenti ricerche hanno confermato queste esigenza: il vissuto e lo stress del paziente, ad esempio, ha importanti ricadute sui processi biologici: lo stress psicologico aumenta del 40% il tempo di guarigione delle ferite chirurgiche, mentre una breve tecnica antistress migliora i decorso postoperatorio con tre giorni di degenza in meno. Una quota significativa delle cause legali intentate agli ospedali nasce da come i pazienti si sono sentiti trattati, mentre problemi di stress del personale sono alla base di molti errori che vengono effettuati. Tutto questo si ribalta sui costi: una indagine su 9 milioni di cittadini Usa ha mostrato come i fattori psicologici aumentino i costi sanitari dal 30 al 170%.
 

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