Non profit
Il miliardo di euro per Notre Dame? Più che generosità è marketing oculatissimo
I grandi marchi di moda e lusso francesi fanno a gara a chi mette a disposizione più milioni per la ricostruzione della Cattedrale. Ed esplode la polemica sul perché questa generosità non ci sia su questioni sociali più rilevanti. «È molto cinico ma va detto: da un punto di vista di marketing è molto più conveniente usare Notre Dame che pensare ad azioni in favore di senzatetto o poveri che hanno molto poco appeal e sono estranei all'immaginario cui appartengono quelle aziende» sottolinea Rossella Sobrero di Koinetica
Le donazioni per il restauro di Notre Dame dopo l’incendio sono stati un vero e proprio tzunami. Protagonisti grandi industriali, ma anche privati più o meno facoltosi in Francia e all'estero. La famiglia Pinult, azionista di maggioranza del gruppo Kering, ha donato 100 milioni di euro. La Disney, che nel 1996 ha firmato il film animato "Il gobbo di Notre-Dame" e che sta lavorando a una seconda versione in live action del capolavoro di Victor Hugo, contribuirà con 5 milioni di dollari a ai lavori per la ricostruzione. La miliardaria brasiliana Lily Safra, vedova del banchiere Edmond Safra, una delle 20 donne più ricche al mondo, ha inviato un assegno da 20 milioni di euro. Il Gruppo Lvmh , a capo di marchi del calibro di Fendi, Bulgari, Christian Dior, Bulgari, DKNY, Cèline, Guerlain, Givenchy, Kenzo, Loro Piana e Louis Vuitton, ha messo sul piatto ben 200 milioni di euro così come il gruppo L'Oreal, insieme alla famiglia Bettencourt Meyers e alla fondazione Bettencourt Schueller. L'Ile de France, la regione di Parigi, ha invece stanziato 10 milioni di euro. Iniziative anche dall’estero. Negli Usa, infatti, si è già attivata la French Heritage Society, un'organizzazione con sede a New York dedita proprio alla conservazione dei tesori architettonici e culturali francesi, che ha lanciato una pagina web di raccolta fondi. Altri 100 milioni arrivano anche dalla società petrolifera Total. Non si sa ancora a quanto ammonterano ma sono annunciate donazioni da Apple e Nissan. Intanto il governo francese ha lanciato la campagna di raccolta fondi che conivolge come collettori il Centre des Monuments Nationaux, la Fondation Notre-Dame, la Fondation du Patrimoine et la Fondation de France. Le donazioni potranno beneficiare di sconti all'imposta sul reddito pari al 75% fino a 1000 euro donati e al 66% oltre quella soglia.
Il conteggio quindi parla di circa 700 milioni certamente già raccolti ma si immagina che i fondi raggiungeranno e supereranno agilmente il miliardo di euro. Questo a fronte di un bisogno che secondo Michel Picaud, presidente della associazione “Friends of Notre-Dame de Paris”, si assisterebbe per i lavori di restauro di Notre Dame intorno ai 150 milioni di euro. Al netto del fatto che alcuni esperti ritengano sia più verosimile il doppio di questa cifra è evidente come la raccolta abbia ampiamente superato qualsiasi soglia, anche pessimistica, immaginata per il recupero della cattedrale.
Cifre neanche mai lontanamente avvicinate da nessuna raccolta fondi fino ad oggi. Nessun disastro ambientale, dagli tzunami ai terremoti, ha visto muovere cifre così significative. Soprattutto da parte di aziende. Anche se per l’incendio di Notre Dame non ci sono state vittime.
«Una spiegazione può certamente essere il regime premiante rispetto alle donazioni che ha la Francia», sottolinea Rossella Sobrero, esperta di CSR e fondatrice di Koinètica, prima realtà in Italia dedicata in modo esclusivo alla responsabilità sociale d’impresa.
In effetti in Francia le donazioni godono di deduzioni molto marcate, il che significa che il sistema francese incoraggia le donazioni. In generale, non soltanto per Notre-Dame. La legge Aillagon, che prende il nome del ministro della Cultura che c’era quando è stata introdotta, nel 2003 (Jean-Jacques Aillagon, gollista chiracchiano), stabilisce il regime delle donazioni a patto che vengano fatte a organismi riconosciuti dallo stato come “difensori dell’interesse collettivo”. Le persone fisiche beneficiano di una riduzione d’imposta sui redditi pari al 66 per cento del totale della donazione, sempre dentro al limite del 20 per cento del reddito imponibile. Per i redditi più alti, che beneficiano dell’imposta Ifi (la tassa sui beni immobiliari) introdotta da Macron, la detrazione arriva fino al 75 per cento dell’ammontare della donazione. Per le aziende, il credito d’imposta è del 60 per cento della donazione con un plafond previsto dello 0,5 per cento del giro d’affari dichiarato in Francia. In Italia le erogazioni liberali dirette alle onlus sono regolamentare dal d.l. 14/03/2005, che prevede il 10 per cento di deducibilità dal reddito imponibile con un massimo di 70 mila euro. È possibile anche seguire la strada delle detrazioni (le due strade sono alternative) che è prevista dal Tuir, e che è pari al 26 per cento per le donazioni fino a 30 mila euro, ma per i redditi medio-alti non è appetibile, cioè non è incoraggiante.
Aillagon ha proposto di definire Notre-Dame “tesoro nazionale” in modo da portare la detraibilità al 90 per cento. Il governo definirà le regole di questa donazione in settimana, e ci saranno differenze per le donazioni inferiori e superiori ai 1.000 euro in modo da incoraggiare i contributi più ridotti che però allargano la rete della solidarietà, un po’ come avviene nelle campagne elettorali americane: tanti contributi piccoli sono sintomo di consenso e di vivacità di una candidatura più che i grandi contributi (che hanno comunque un tetto, e che sono comunque necessari).
Ma per Sobrero, «la vera spiegazione non è questa». A confermarlo c’è il fatto che sia Pinault che il gruppo Lvmh, che hanno messo sul piatto da soli 400 milioni di euro, hanno già annunciato che non si avvarranno di deduzioni e detrazioni.
«Bisogna fare un discorso ahimé più cinico», sottolinea la fondatrice di Koinetica, «in questo modo le aziende stanno cercando consenso. Un'azione legata ad un'icona del Paese dà loro la possibilità di fidelizzare e pubblicizzare il proprio impegno sociale. Questa esigenza, lo testimoniano tutte le ricerche, l'ultima delle quali è stata pubblicata da Ipsos, è data dalla richiesta sempre più esplicita dei consumatori che le aziende abbiamo questo engagment con il territorio e la società, che abbiano un ruolo attivo in ambito sociale».
Ecco perché è un buon investimento spendere 200 milioni per Notre Dame. «L'obiettivo è fidelizzare i consumatori, dimostrare il legame dell'azienda con il territorio e l'interesse er i simboli distitntivi di quella comunità. Questo senza contare che quello che è successo va a toccare una sfera emotiva ed emozionale molto forte», sottolinea Sobrero.
Eppure altre tragedia, con ricadute molto più drammatiche in termini di vite umane perse, non hanno visto questa corsa all'intervento. Sobrero ha le idee chiare: «Dobbiamo dirci le cose come stanno anche se sono sgradevoli: la commozione in quei casi era troppo distribuita. Uno zunami che fa 130 mila decessi non ha segni distintivi riconoscibili e forti. Non ha elementi simbolici forti. E quindi dal punto della comunicazione non aveva lo stesso impatto».
La Fondation Abbè Pierre, che da decenni si occupa di lotta all'emarginazione, nonostante la nobiltà della causa della ricostruzione della Cattedrale, su Twitter ha lamentato la poca disponibilità dei grandi gruppi nell'ordinaria lotta alla povertà: «400 milioni per Notre-Dame, grazie Kering, Total e Lvmh per la vostra generosità. Siamo molto legati al luogo dei funerali dell'Abbé Pierre. Ma siamo anche molto legati alle sue battaglie. Se poteste dare l'1% ai bisognosi, saremmo soddisfatti».
In effetti se è vero come dice Sobrero, che i disastri ambientali non hanno una riconoscibilità simbolica come quella di Notre Dame, è anche vero che l’aiuto agli indigenti del porprio paese potrebbe averla e dimostrerebbe quell'impegno sociale che i consumatori pretendono. «No, non è così», conclude Sobrero, «perché Notre Dame è un simbolo e una causa che ha un appel che si sposa bene con aziende che si occupano di moda e lusso. I senzatetto e i poveri invece non hanno appel e non sono molto adeguati a veicolare un messaggio con l'immaginario di quelle aziende».
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