Cultura

Il mercato fuori pista

dibattiti Che cosa insegna la grande crisi finanziaria di questo 2008

di Redazione

L’uso delle metafore è sempre un’operazione pericolosa, sebbene affascinante, nelle scienze, perché rischiano di portare fuori strada proprio perché semplificano la comprensione di fenomeni complessi. Anche l’economia da sempre usa metafore (la prima è quella del mercato descritto come una “mano” invisibile, che ritroviamo in alcuni tra i primi economisti del Settecento, tra cui il napoletano Galiani nel 1750; una delle ultima è quella di “gioco”, che informa di sé ormai l’intera teoria economica).
Una metafora oggi molto usata, sebbene più da giornalisti e politici che non dagli studiosi, è quella sportiva, che spesso ritroviamo nel dibattito pubblico e in alcuni libri di testo di materie aziendali e di marketing. Si sente spesso dire che concorrenza deriva dal “cum-correre”, correre insieme, da cui l’immagine della gara come metafora del mercato, la vittoria dei migliori come immagine della meritocrazia, la corruzione (doping) che porta al fallimento sia lo sport che il mercato, il team di lavoro come la squadra, il manager come l’allenatore (coach), e potrei continuare.

il vizio mercantilista
Non è mia intenzione negare che alcune di queste immagini siano anche simpatiche e colgano alcuni aspetti di verità (tra cui l’immagine del team, o del doping), ma sono convinto che quando si usa l’immagine della gara sportiva per rappresentare la concorrenza nel mercato, si commettono errori importanti, si porta il cittadino non esperto di teoria fuori strada, e si trasmette un’immagine del mercato che non corrisponde al vero. E ciò per almeno due ragioni. In primo luogo, l’accostamento concorrenza di mercato-concorrenza sportiva porta, più o meno consapevolmente, a considerare la concorrenza di mercato come un “gioco a somma zero”, un gioco cioè come il poker, nel quale l’ammontare delle tue perdite è uguale e di segno contrario a quello delle mie vincite. Questo errore, purtroppo, è tra i più comuni anche nei dibattiti politici e culturali nei media e nelle conferenze (l’ho appena ascoltata a Liverpool da un autorevole filosofo e opinion leader inglese), ed è una delle pre-comprensioni che chi come me insegna economia fa più fatica a correggere negli studenti.
Questo errore è chiamato “il vizio mercantilista”, poiché era questo il tipo di errore che gli economisti (chiamati mercantilisti) del Seicento normalmente commettevano quando pensavano al commercio internazionale, che veniva da loro immaginato e descritto come una relazione nella quale una parte vince e l’altra perde. Tutte le volte che commettiamo ancora oggi questo antico errore, guardiamo lo scambio di mercato come un problema di spartizione di una torta: se la mia fetta aumenta, la tua diminuisce; e viceversa.
Da Adam Smith (1776) in avanti, però, una delle dimostrazioni fondamentali dell’economia moderna è mettere in luce che lo scambio è un “gioco a somma positiva”, dove entrambi i partner dello scambio migliorano il loro benessere (o, come si dice in economia, la loro “utilità”). È come se, per usare (anche qui) la metafora della torta, mentre scambiamo aumentiamo le dimensioni della torta. È un concetto in parte controintuitivo, ecco perché illustri studiosi e filosofi per secoli non avevano colto questo aspetto fondamentale del mercato. È stato prima Ricardo (1817), e poi Edgeworth (1881) a dimostrare matematicamente questo teorema, ma l’intuizione era già vecchia di almeno un secolo.
In certi casi è vero che lo scambio di mercato può diventare un gioco a somma zero, o essere percepito dagli agenti economici in questo modo (si pensi, ad esempio, al rapporto di lavoro). Ma – e qui sta il punto – quando e se il mercato diventa un gioco a somma zero ci troviamo nella patologia, non nella normalità. Ciò accade quando l’economia di mercato, o l’impresa, non crea ricchezza (non “cresce”, nel linguaggio politico), e non si guarda l’altro partner come un alleato con cui crescere insieme scambiando o facendo un’impresa, ma come un rivale, un concorrente, come accade in un gioco di poker.
Molti esprimono il mutuo vantaggio come un gioco “win-win”, un’espressione poco felice perché è sempre all’interno della metafora della gara, dove si vince e si perde (e non si capisce come si possa vincere tutti, senza che nessuno perda). In realtà, c’è un modo coerente di intendere il “win-win”, ma che non è usata da coloro che usano questo linguaggio: è intendere lo scambio economico come un’azione di un team (attenti: il team o il gruppo non è un concetto originariamente sportivo, ma lo sport lo usa prendendolo in prestito dalla vita sociale delle comunità umane).
L’economia, infatti, usa il concetto di team per indicare il gruppo di lavoro all’interno dell’azienda, ma non lo usa per indicare lo scambio di mercato. In realtà si potrebbe rappresentare perfettamente, dandone un’immagine più vicina alla realtà, anche il rapporto tra un fornitore e un cliente, o tra un idraulico e un padre di famiglia, come un team: si coopera per raggiungere un obiettivo comune che avvantaggia entrambi – è questa la linea che da qualche tempo porto avanti nei miei lavori scientifici sul mercato.

Cos’è la concorrenza
C’è poi il secondo errore, che consiste nel vedere la concorrenza di mercato come una gara tra imprese, dove l’una cerca di “battere l’altra”: lo scopo, si dice, dell’impresa A è battere l’impresa B (o C, D …), e nel far questo, il risultato, non intenzionale, dell’azione dell’impresa è ridurre il costo del prodotto per il consumatore X (migliorare il bene comune). Come nelle gare sportive, appunto, dove (si pensi all’atletica), lo scopo dell’atleta A è battere i suoi concorrenti, e come effetto “indiretto” magari far avanzare i record (che è un modo per aumentare il “bene comune”).
Anche se qualcuno potrebbe persino dubitare che la concorrenza sportiva sia solo questo (in realtà l’atleta ha bisogno dei suoi concorrenti per potersi migliorare, anche se il ruolo dei concorrenti viene spesso visto solo come strumentale), in ogni caso questa visione della concorrenza non è quella del mercato, almeno nella sua fisiologia e quando svolge la sua funzione civile e civilizzante. Infatti, lo scopo dell’impresa A non è battere B, ma soddisfare al meglio i bisogni del consumatore X; il fatto che l’impresa B, se non soddisfa meglio di A i bisogni di X esca dal mercato, non è lo “scopo” di A, ma solo un effetto “non intenzionale”. E dov’è la differenza, qualcuno potrebbe chiedersi. La differenza sta proprio nel leggere, interpretare e vivere il mercato come un gioco “cooperativo”, o come una gara dove uno vince e l’altro perde.
Ci sono, infatti, oggi studi importanti che dimostrano che i Paesi, le culture, che vedono il mercato come un “gioco a somma zero”, e il “competitore” come un rivale e non un partner in un rapporto mutualmente vantaggioso, crescono meno e male rispetto a quelle culture dove il mercato è produttore di ricchezza per tutti i soggetti coinvolti nello scambio. Il mercato, la vita in comune, la politica, dipendano anche dal nostro modo di immaginarli: se iniziamo a leggere la vita civile, mercato incluso, come un grande “gioco” cooperativo, forse è un primo passo per un Paese, e per un mercato, migliori.

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