Famiglia

Il menu di san salvario

A Torino era sinonimo di Bronx. Oggi le cose sono molto diverse. Merito del lavoro dal basso di un’Agenzia del territorio e di una rete di piccole associazioni...

di Elisa Cozzarini

«Signorina, non passi di lì. È pieno di negri» L?avvertimento politically incorrect viene da una donna con marcato accento del sud Italia. Vecchi immigrati contro i nuovi. Siamo a San Salvario, ?quadrilatero? di 15mila abitanti, con strade e palazzi decadenti di sabauda memoria, a ridosso della stazione Porta Nuova a Torino. Una barista piemontese scoppia dalla voglia di dire anche lei la sua. «Di là ci sono bei locali, un ottimo ristorante argentino, ma meglio fare il giro largo, evitando certe vie?».

Ilaria risponde con un gran sorriso che la illumina fino agli occhi e capelli chiari. «Ho vissuto qui per qualche anno, come molti studenti. Non è così terribile. A noi torinesi anni di migrazioni in arrivo ci hanno dato una bella scossa». In effetti, appena ha saputo che Ilaria andava a vivere a San Salvario, a sua mamma è venuto un colpo. Oggi il quartiere ha ancora cattiva fama. I riflettori si sono accesi quando don Piero Gallo, della parrocchia di San Pietro e Paolo, in un?intervista a La Stampa ammise l?evidenza, che la situazione era grave.

C?era una volta il Bronx
«Nel 95 questo era il Bronx di Torino. Oggi è diverso. Più che una questione securitaria, ci sono problemi di convivenza. Perché ci si trova a passeggio tra prostitute e spacciatori, ma anche per vicende più banali. Come il filippino che ogni sera radunava orde di connazionali a passare il tempo sotto casa. I vicini, moglie compresa, non lo sopportavano più», racconta Roberto Arnaudo, dell?Agenzia per lo sviluppo territoriale, un?associazione di associazioni che operano nel quartiere. Roberto, la faccia quasi del tutto coperta da barba e riccioli invasivi, continua: «L?Agenzia è nata dal basso, dalla volontà dei cittadini di rimediare alla crisi urbana di San Salvario, ereditata da quando qui viveva il ceto operaio immigrato dal Sud».

A Porta Palazzo, l?altra zona di Torino ad alta concentrazione di stranieri, non c?è una rete di associazioni così forte. The Gate è un progetto di riqualificazione che viene dal Comune. Sarà che quella è una realtà più dispersiva, una grande piazza con rioni attorno. Ma anche lì i legami sociali non mancano. Jamal vende la menta fresca in un baracchino ai margini del mercato, come in un suk marocchino. E come in un suk, chiedi il tè a Jamal, che ti porta dall?amico macellaio, che te lo offre. Già pronto, come se fosse tutto calcolato. Jamal e l?altro sono a Torino da dieci anni. «Ma che bello il Marocco». Gli occhi brillano di nostalgia.

Poco distante, a San Salvario, Bibo gestisce un ristorantino kebab. Anche lui da dieci anni in Italia. Sarà un caso o forse è perché il tempo ha un valore diverso dal nostro. Meno preciso, più fluido. Dieci anni vuol dire tanto tempo, il tempo di cambiare vita, cercare un futuro migliore dal Cairo a San Salvario, gomito a gomito con culture e religioni diverse.

C?è la chiesa cattolica, quella evangelica valdese, la sinagoga e oggi alcune sale di preghiera musulmane ritagliate nei cortili dei palazzi. L?unico spazio a bassa densità di abitanti è piazza Madama Cristina, con il parcheggio sotterraneo e i colori del mercato. Lì si affacciano i tavolini del locale di Bibo. Ilaria è cliente fissa, ormai conosce tutta la famiglia, la moglie e i tre figli. Due sono a scuola, Naima li va a prendere assieme al più piccolo. Abbraccia Ilaria, felice di vederla, ancora riconoscente di essere riuscita a prendere la patente grazie a lei, alla Banca del tempo.

«Il gruppo di egiziane era il più chiuso, difficile da avvicinare. Parlavano quasi solo arabo all?inizio. È stato un successo riuscire a coinvolgerle negli scambi di tempo con tempo». Il progetto Basta un ritaglio è nato tre anni fa, quando Ilaria, Chiara, Irene, Gigi e Davide tornano dall?Erasmus, chiacchierano, ricordano quant?è difficile conoscere i francesi in Francia, i tedeschi in Germania? e, chissà, gli italiani in Italia. Così pensano ai vicini di casa di San Salvario, che vengono da mondi tanto lontani.

Ilaria fa economia, in un esame studia le Banche del tempo. Luoghi in cui un assegno vale tot minuti di quel che sai fare, qualsiasi cosa sia. Stirare o insegnare l?italiano, cucinare o fotografare, giocare a tennis o guidare la macchina. Il primo scambio è tra Davide e Dominique. Lui è ricercatore, studia le foreste. Doveva andare a Lougà, Senegal settentrionale, per osservare certi funghi che spuntano sulle cortecce. Lei è in Italia per lavoro, parla francese, ma l?italiano le farebbe comodo, come a Davide servirà conoscere qualche parola di wolof e dritte sulla cultura senegalese. Così si incontrano e si aiutano a vicenda, alla pari. Poi si passa agli scambi culinari e l?invito a cena si estende a tutti i soci della Banca del tempo, allora solo una trentina. Oggi, a due anni dalla fondazione, servirebbe una tavola per più di 200 persone.

Il pulmino di con Cesare
Scambi di cucina e aiuto ai bambini per fare i compiti sono i più gettonati. Le donne li scoprono proprio passando davanti alla sede della Banca del tempo, nell?oratorio salesiano San Luigi, con utenza immigrata al 75%. E da qui parte il pulmino con don Cesare, educatori e volontari, che girano cercando di avvicinare i ragazzini che spacciano hashish. Minori stranieri non accompagnati, piccoli marocchini anche di nove anni, imbarcati in un camion nel porto di Casablanca e sbarcati a Torino.

«Se vogliono tentare di uscire dallo spaccio, gli diciamo, noi possiamo dargli una mano. Non è vero, come pensano, che a stare in strada si guadagna di più. Alcuni continuano, per mandare soldi alle famiglie, finendo magari a sniffare la colla per resistere all?inverno. Si buttano nel Po per scappare agli inseguimenti della polizia, vivono nei condotti del fiume o in case abbandonate? Altri invece decidono di provarci a cambiare strada e vengono nel centro d?accoglienza».

Per don Cesare, San Salvario è il laboratorio per una nuova idea di cittadinanza. «C?è chi reagisce in positivo, chi no. Di certo, non è questione di religione. Piuttosto il consumismo sta spazzando via tutte le religioni».

Il quartiere cambierà presto anche perché sotto i portici di via Nizza, dove oggi ci sono le prostitute vestite come se andassero a fare la spesa, correrà la metropolitana. Si fiutano affari, i prezzi delle case iniziano a salire, aprono locali alla moda per aperitivi radical chic, mentre nelle soffitte continuano a vivere nascosti i sans papiers. E in via Berthollet, quella dei ?negri?, una donna africana esce dal parrucchiere con le treccine appena fatte.


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