Volontariato

Il meglio di Cannes, Moretti a parte

Una decina di film da non perdere visti alla Croisette. La sorpresa è un regista bosniaco. La conferma viene dagli iraniani. Ma la vera perla è quella di Ermanno Olmi

di Redazione

Eravamo stati buoni profeti parlando degli italiani a Cannes. Felici per la Palma d’Oro, che grazie a Nanni Moretti torna in Italia a 23 anni dalla vittoria de L’albero degli zoccoli e a tre anni dallo scippo subito in extremis da La vita è bella, possiamo ritenerci soddisfatti anche del livello complessivo del festival di Cannes. Se La stanza del figlio sembrava fin dall’inizio candidarsi non solo alla vittoria finale ma a quel livello superiore del cinema contemporaneo che è in grado di guardare in faccia la realtà e parlare all’uomo dei suoi drammi e dei suoi problemi in maniera profonda (niente a che vedere, quindi, con la tv-verità o del dolore), altri film si sono segnalati in questa categoria a noi cara. I film che arrivano a Cannes da tempo, infatti, si dividono tra ricerca dello scandalo e della trasgressione a tutti i costi e opere dalla parte della realtà, con stili e flessioni diverse. Cosa merita di essere visto prossimamente, all’arrivo nelle nostre sala? Oltre ai già citati, in un recente numero di Vita, Il mestiere delle armi di Olmi (vero capolavoro, già nei cinema) e No man’s land del bosniaco Danis Tanovic, con produttori italiani e vincitore del premio alla regia con un film sull’assurdità della guerra civile, segnaliamo innanzi tutto due film provenienti dall’Iran. Ancora, si dira? Sì, ancora. Questo paese, che da almeno un decennio regala capolavori con una regolarità quasi sconcertante (se si pensa alla pochezza di mezzi, poi) e che ha imparato meglio di qualsiasi altro la lezione del neorealismo italiano del dopoguerra, presentava in concorso Kandahar del maestro Mohsen Makhmalbaf. Dal patriarca di una famiglia votata al cinema (già premiate in vari festival con i loro film la moglie e la figlia, mentre si sono già messi in luce altri parenti), la storia di un giornalista afgano che, fuggito dal suo paese dopo l’ascesa al potere dei talebani, torna in Afganistan per scongiurare il suicidio annunciato (per lettera) della sorella mutilata da una bambola-bomba. Nel suo viaggio-odissea attraverso un paese depresso e schiacciato da un’ideologia violenta, l’uomo percorre e sembra addossarsi su di sé il calvario di un intero popolo. Immagine indimenticabile: la pioggia di gambe artificiali paracadutate su un campo di mutilati. L’altro film iraniano, stavolta fuori concorso, è film documentario dell’altro grande maestro del cinema persiano: Abbas Kiarostami, che per il Fondo agricolo internazionale ha realizzato ABC Africa sul dramma dell’Aids e in particolare la strage di bambini uccisi in Uganda dalla terribile “peste” moderna. Un road movie con macchina a mano, con una grande anima. In concorso c’era anche Distance, del giapponese Hirokazu, che indaga le radici del fanatismo violento prendendo spunto da un massacro avvenuto all’interno di una setta: un centinaio di adepti si uccidono a vicenda, i superstiti si suicidano. Tre anni dopo, quattro amici imparentati con alcune vittime vanno in pellegrinaggio sul luogo della strage, alla ricerca delle cause scatenanti tale follia. Nella sezione Certain Regard, poi si parlava di droga in R-Xmas di Abel Ferrara e di disagio giovanile in Lovely Rita di Jessica Hausner. A tutti questi film che parlano di problemi sociali aggiungiamo uno sguardo storico-metafora da grande autore: Taurus del regista russo Aleksandr Sokurov. Che dopo aver raccontato in Moloch una giornata particolare di Hitler e dei suoi amici-gerarchi nazisti, qui mostra l’agonia di Lenin. E ancora una volta ci illustra la banalità del Male, l’illusione del potere, la miseria dei tiranni.


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