Formazione

Il meglio della guerra

Le rose del deserto: 65° film del grande Monicelli. Guerra di Libia, 1940. Scardinata la retorica di guerra, fatta di eroismi mitici, per portare lo sguardo sui piccoli gesti

di Maurizio Regosa

Inizia con una bugia evidente e si conclude con una verità dissimulata, l?ultimo film di Mario Monicelli. Il maggiore scrive all?amata moglie e si lascia prendere la mano, alla ricerca del miglior effetto retorico che suggerisca eroismo. Mente cioè per amor di retorica, quella stessa retorica che tanta efficacia ha avuto nei racconti di guerra. Troppo spesso fitti di eroi, di gesta memorabili, di resistenze invincibili?

Differente la mia prospettiva, sembra dire Mario Monicelli a distanza di 40 anni dall?insuperato La grande guerra. Un po? perché la storia si svolge essenzialmente in un ospedale da campo (siamo in Libia, è appena scoppiata la guerra ?lampo?). Un po? perché al regista importa di sottolineare l?eroismo spicciolo, fatto di scelte minute e concrete e ispirato a una solidarietà che – nei fatti – mal si concilia con la prosopopea belligerante. È così che la 31esima Sezione Sanità, in attesa di intervenire sui feriti di titanici scontri, inizia a prendersi cura dei ragazzini, delle donne, dei soggetti deboli che abitano in un piccolo villaggio sperduto. La missione diviene umanitaria, senza quasi che i militi se ne accorgano?

Costruito con la consueta sagacia, Le rose del deserto è un film forse discontinuo ma a suo modo importante. Sì, a tratti Monicelli si lascia andare, approfitta della situazione e lancia qualche strale nei confronti di in tempi più recenti ha pensato di ?esportare la democrazia? o ha guardato con supponenza alla civiltà araba. Ma la maestria nel comporre i caratteri, nel tratteggiare le fisionomie, è al solito notevole (e il cast è tutto in ottima forma). Come pure decisa è la condanna di ogni stupida violenza e delle tante forme di prepotenza, quasi tutte inutili e inumane, perpetrate per futili motivi, per vanità, per un malinteso senso del dovere. Ci sono passaggi magari non del tutto convincenti (quei generali così fumettistici; quei tedeschi così stereotipati), ma che per lo più Monicelli risolve con intelligenza, spesso salvandosi in corner? Perché è una sua capacità di sempre quella di saper passare dalla commedia al dramma vero, aiutato in questo caso dalla figura non convenzionale di un frate domenicano (Michele Placido). È proprio lui, missionario autentico, ad aprire la strada, con gradualità, alla verità (spirituale?) con cui il film si chiude. L?inquadratura finale mostra la tomba del maggiore, sulla quale sono appoggiate le lettere della moglie, mosse dal vento? Il cerchio si è chiuso: la retorica ha fatto l?ennesima vittima. Allo spettatore trarre le dovute conclusioni.

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