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Il medico è sempre acceso

In un libro ricordi e consigli dell'ematologo Franco Mandelli

di Redazione

Inizi a leggere ed ecco la medicina qual era appena 50 anni fa. Medici che dormivano negli ospedali perché non avevano uno stipendio. Codazzi di dottori e infermiere che seguivano il primario. Malati che non sempre trovavano cure adeguate. Specie per questi ultimi il 900 non è stato affatto un secolo breve. È stato piuttosto una corsa fitta di molti ostacoli e di alcune scoperte, come si comprende leggendo Ho sognato un mondo senza cancro il libro che Franco Mandelli (nella foto), grande ematologo e presidente dell’Ail, ha scritto con la collaborazione di Roberta Colombo. Un libro umanissimo, fatto di ricordi, di note divulgative e di riflessioni appassionate sul cammino che ha portato se non a sconfiggere le varie forme leucemiche, almeno a ridurne (e di moltissimo) la mortalità. Un libro per il quale il professore ha scelto un sottotitolo che lo raffigura alla perfezione («La vita e le battaglie di un uomo che non si arrende»). Anche quando lo incontriamo, nella canicola estiva, Mandelli risponde alle chiamate dei pazienti. Ed è come se le pagine prendessero vita: «Bisogna amare i malati»…

Vita: Professore, perché è così difficile «amare i malati»?
Franco Mandelli: Perché vuol dire sacrificarsi. Non puoi spegnere il telefono se ami i malati e sono pochi i medici che non lo spengono. È facile dire «voglio bene ai malati», devi dimostrarlo. E il malato capta immediatamente qual è il medico di cui si può fidare. Quante chiamate ricevo al sabato o alla domenica. «Mi scusi… lei non mi conosce. Ma stamattina ho chiamato uno dei suoi medici che però non risponde…. Ho pensato di telefonare a lei». Certo, bisogna avere pazienza. Ma è difficilissimo che mi sia arrabbiato con un malato.
Vita: Oggi pare che il medico abbia più paura del paziente.
Mandelli: Semmai è diminuita. Il malato ha più coscienza dei suoi diritti. Una volta pendeva dalle sue labbra. Oggi non è più così. Ci sono ancora malati con un bassissimo livello culturale, ma guardando alla media non c’è paragone. E poi gioca un ruolo fondamentale quello che il medico sente di poter dare. Deve immedesimarsi nel malato, che qualche volta non ha neanche il coraggio di chiedere. Qualche medico dice «non ho tempo, ho tanto lavoro»… Non è che il malato ha bisogno di molto tempo. Ha bisogno di poco tempo ma dedicato solo a lui.
Vita: È un consiglio ai giovani. Nel libro ne dà molti….
Mandelli: Devono capire cosa vogliono fare. Bisogna amare i malati, cosa che non è di tutti. Se non riescono possono scegliere il laboratorio. Ci sono suggerimenti anche ai medici di famiglia. Sa quante volte mi hanno detto: «Lei è il primo che dopo tanti anni visita mio marito». Il medico di base è il tramite tra malato e specialista e ospedale e assistenza domiciliare. Se non c’è collaborazione…
Vita: Il libro è scritto soprattutto per i pazienti?
Mandelli: A loro sono convinto che serva. Intanto perché sono tante storie che finiscono bene, per fortuna. E poi racconta di malati che hanno tutti un rapporto molto vero con me e i miei medici. Questo deve spingere i pazienti a volere questo tipo di rapporto. Al limite a pretenderlo.
Vita: Non ha mai fatto conto sui politici.
Mandelli: Semmai ho fatto delle cose nonostante loro…
Vita: Che importanza ha avuto l’Ail?
Mandelli: Dalle prime iniziative, abbiamo capito che dalla vendita dei biglietti o delle stelle di Natale, potevamo avere dei fondi. Cioè fare scelte che non dipendono dalle amministrazioni degli ospedali. Con il tempo abbiamo creato questa struttura di 80 province che hanno una sezione Ail e siamo riusciti a far sì che le risorse facciano la differenza a livello locale. Con Trenta ore per la vita abbiamo fatto nascere degli ospedali dove non c’era il reparto di ematologia. E poi siamo andati avanti in questo modo, fino al recente acquisto della sede di Via Casilina dove ha sede il gruppo Gimema (Gruppo Italiano malattie ematologiche dell’adulto).
Vita: Perché lo avete creato?
Mandelli: Per far sì che a Reggio Calabria come a Palermo si abbiano gli stessi risultati di Torino, Milano o Treviso. Perché è una rete di centri che utilizza gli stessi protocolli finanziati dall’Ail. Questo consente al malato di restare dove abita. Stare vicino a casa è un vantaggio impagabile.
Vita: Lei scrive: «in prima linea c’è il paziente, i parenti e infine i medici».
Mandelli: Non puoi non tener conto del ruolo che hanno la moglie, i figli, i parenti. Anche un ragazzo che ha 20 anni si rivolge ai genitori quando è malato. Quante volte la scelta di un paziente è fatta anche sulla base di pareri dati dai familiari. E il medico deve muoversi in questa situazione, mettendo il malato al primo posto. Deve consigliarlo, magari evitando di dire: «ci sono due strade, scelga lei». È preferibile dica quale strada consiglia, quale scelta suggerisce. Poi la decisione è del malato.
Vita: Lei raccomanda di immedesimarsi nei pazienti, di avere l’umiltà di mettersi sempre in gioco. È possibile insegnarlo?
Mandelli: Credo di no. È qualcosa che uno deve trovare dentro di sé. Forse bisogna avere una dote, quella di non pensare troppo prima di decidere. Le sembrerà strano ma se uno prima di prendere una decisione si ferma troppo a lungo… Io non l’ho mai fatto. Qualche volta ho sbagliato. Forse anche spesso. Ma è come quando uno deve decidere per un malato. Bisogna fidarsi dell’intuito. E buttarsi.

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