Medio Oriente

Il medico di guerra a Gaza: «Amputo le gambe a bambini che ancora non sanno camminare»

Paul Ley è un medico di guerra del Comitato della Croce Rossa Internazionale. È arrivato nella Striscia di Gaza alla fine di ottobre. «Dicono che cercano di colpire solo obiettivi militari e combattenti. Ma il 40% delle persone che arrivano in ospedale sono bambini. I miei colleghi palestinesi ricevono le notizie della morte dei parenti e continuano a lavorare. Credo che per ritrovare un’intensità di bombardamento simile bisogni ritornare alla seconda guerra mondiale. Solo che la Striscia di Gaza è grande 300 chilometri quadrati: piccolissima. Un popolo intero ora soffre di disturbo post traumatico da stress»

di Anna Spena

Nella Striscia di Gaza, dallo scorso sette ottobre, dopo l’inizio della guerra tra Israele e Hamas, i morti palestinesi durante i bombardamenti delle forze di difesa israeliana sono più di 13mila. Tra loro oltre 5.500 minori. Un milione e settecentomila è il numero degli sfollati interni. Nella Striscia, un fazzoletto di terra di 300 chilometri quadrati, c’erano 36 centri ospedalieri e, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, 22 strutture ora sono fuori servizio a causa degli scontri armati. I morti si seppelliscono nelle fosse comuni. I camion umanitari entrano a singhiozzo dal valico di Rafah – confine con l’Egitto – ma continua a non entrare il carburante. E la situazione continua a peggiorare. Abbiamo raggiunto al telefono Paul Ley, 60 anni, chirurgo ortopedico, medico di guerra, che lavora con la Croce Rossa Internazionale. Lo scorso 27 ottobre è riuscito ad entrare nella Striscia, attraverso il valico di Rafah.

Dentro il conflitto

«Sono entrato con una équipe chirurgica composta da due chirurghi, plastico e ortopedico, un anestesista, una strumentista, e due infermieri. Siamo passati dal valico di Rafah e abbiamo raggiunto un ospedale a Sud della Striscia. Sono all’ European Gaza Hospital a sud est di Khan Yunis, la seconda più grande area urbana nella Striscia di Gaza dopo Gaza City. Non vedo tanto del conflitto fuori, vedo tanto di quello che questo conflitto sta producendo. Riceviamo feriti tutto il giorno, anche feriti che vengono trasferiti da altri ospedali che stanno chiudendo perché non sono più nelle condizioni di essere operativi e quindi spostano i pazienti verso Sud».

I corpi devastati dalle esplosioni 

«Mentre mi chiami fotografo frammenti di plastica che ho tirato fuori da una ferita. Questo è un conflitto da esplosione, non ci sono feriti da arma da fuoco, ma solo feriti da bombardamenti aerei. E i feriti da esplosione sono più complessi: nella stessa persona, nello stesso paziente, c’è una miscela di trauma da onda d’urto, poi ci sono le ustioni, poi le ferite balistiche, poi frammenti e schegge in ogni parte del corpo. Eseguo forse dieci operazioni al giorno, a volte di più, a volte di meno. Dipende dalla complessità».

L’ospedale 

«La capienza normale dell’ospedale è di 220 letti, ma adesso sarà almeno triplicata. Ci sono i malati, i mutilati, e poi ci sono i vivi, gli sfollati che non sanno dove andare, che non hanno trovato posto negli shelter dell’Unrwa. Quelli sono tutti pieni. E così gli sfollati vengono in ospedale – forse ora sono 5mila – perché c’è questa percezione che l’ospedale sia una zona protetta, e questa percezione qui viene rafforzata per la presenza dello staff internazionale. Ma l’ospedale non è una zona protetta, oppure in questo caso potremmo dire che è una zona protetta tra virgolette. Tutti sanno dove siamo: lo sa Hamas, lo sanno le forze di difesa israeliane. Noi abbiamo segnalato la nostra posizione esatta. In teoria non dovremmo essere considerati un target. Però sono gli israeliani a stabilire cosa per loro è un target e cosa no. Quindi nel caso specifico dell’ospedale dove mi trovo, questo non viene considerato un target ma tutto quello che c’è ad appena 150 metri dall’ospedale è considerato un target legittimo. Capite che quando esplode una bomba 150 metri di distanza, in pratica, non sono niente. Le schegge arrivano, l’altro giorno una è entrata nella stanza dove a turno ci riposiamo. Se qualcuno di noi fosse stato in piedi e non steso sarebbe rimasto ferito. Noi sentiamo bombardamenti tutto il giorno».


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Le vittime 

«Dicono che cercano di colpire solo obiettivi militari e combattenti. Ma il 40% degli ustionati che arrivano in ospedale sono bambini. Il primo paziente che ho visto quando sono arrivato era una bambina di un anno, senza gambe, amputata dal trauma, che non sapeva ancora camminare. Io le ho regolarizzato i monconi. Li chiamano i danni collaterali… ma qua parliamo di gente che se arriva viva in ospedale poi esce senza gambe, senza braccia, senza occhi. Parliamo di persone che hanno perso fratelli, sorelle, figli, mariti, mogli, genitori. Credo che per ritrovare un’intensità di bombardamento simile bisogni ritornare alla seconda guerra mondiale. Solo che la Striscia di Gaza è grande 300 chilometri quadrati: piccolissima. I morti sono sempre troppi. Anche un solo bambino morto è troppo».

Il burnout

«Come staff internazionale possiamo stare qui dalle quattro alle sei settimane. Poi veniamo “rilevati” e sostituiti con un altro team per evitare il burnout. Il rischio del bornout è una cosa concreta, ma vale anche per tutto il personale locale, vale per tutto lo staff palestinese. Ma loro non possono uscire, e allora rimangono qui. E lavorano sotto shock da settimane. Noi possiamo dire “vabbè, resistiamo. Prima o poi usciamo”. Per loro invece non c’è limite a tutto questo. Qui le scorte un po’ alla volta diminuiscono. Ora stiamo razionando il cibo: riso e carne bollita, unica razione quotidiana, e la quantità di carne si riduce ogni giorno di più». 

La popolazione della Striscia di Gaza

«Tutte le persone che ho incontrato sono in disturbo post traumatico da stress. Ma ripeto che non parliamo di un singolo individuo, ma di una popolazione intera. Erano persone con un lavoro, una casa. Persone a cui di colpo è stato detto: vai via, sennò muori insieme a tutto il resto. Ma non sempre si riesce a scappare. Anche quando l’esercito israeliano dice che che c’è una strada sicura, poi quella strada non si dimostra sicura. Ci è arrivato un paziente che ha percorso 35 km a piedi per scappare da nord verso sud. Ma aveva perso un braccio nel tragitto».

I droni 

«I droni non smettono mai. Non si vedono ma si sentono sempre. Sorvegliano tutto il territorio di giorno e di notte, sono sopra l’ospedale e sono pronti ad indicare il prossimo bersaglio. È una cosa un po’ surreale. Qualche giorno fa ero seduto alla finestra, vedevo i droni, e poi ho sentito gli uccelli cantare. E mi sono detto “gli uccelli cantano ancora, a Gaza non c’è nessun altro che lo fa”».

Cessate il fuoco

«La popolazione è stremata e continuerà a subire finché andrà avanti questa guerra. Qualcuno non reagisce più, non parla più, non ha più niente da dire. Tutte le persone con cui lavoriamo hanno perso qualcuno. La notizia della morte arriva con una telefonata, e loro spesso continuano a lavorare. Noi dall’ospedale non usciamo mai per questioni di sicurezza. Quindi siamo un po’ protetti da quello che c’è fuori».

Credit foto: AP Photo/Hatem Ali

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