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Il mare nostrum dei volontari offshore

Centinaia di operatori e migliaia di salvataggi. Chi sono e come lavorano le ong impegnate nel soccorso ai migranti nel Mediterraneo. Per partecipare basta mandare un mail a Fondazione Rava o a Sea Eye e Sea Watch

di Ottavia Spaggiari

Per quanto tu ti possa preparare non sarai mai pronto», Ilaria Mosso è sbarcata dalla nave tre mesi fa. Infermiera, romana, è una degli oltre 150 volontari che, dal 2013, con Fondazione Rava, si sono avvicendati sulle cinque navi della marina militare italiana, per soccorrere i migranti nel Mediterraneo. «È un’esperienza che ti cambia la vita. In quattro giorni abbiamo salvato più di mille persone, disidratate, stremate, ferite. E poi moltissimi bambini e tante donne incinte». Negli ultimi tre anni, Fondazione Rava ha contribuito a salvare circa 100mila persone. «Siamo imbarcati con personale medico altamente qualificato, tutto volontario», spiega Emma Bajardi, coordinatrice del progetto. «Sono medici, infermieri e ostetriche che prendono ferie per venire qui».

I volontari di Fondazione Rava non sono soli: è un esercito invisibile, quello delle persone che si alternano nelle operazioni di soccorso via mare, nel Canale di Sicilia e nel Mediterraneo centrale. Centinaia di volontari, arrivati da tutta Europa, per lavorare, giorno e notte, sui ponti delle navi degli umanitari.

Tra questi Sea Watch, l’ong tedesca nata
dalla provocazione di cinque amici, dopo la chiusura
di Mare Nostrum: «Avevano
deciso che, se l’Europa non vo
leva fermare la strage nel Mediterraneo, allora si sarebbero assunti loro le responsabilità che i governi non volevano prendersi», spiega Giorgia Linardi, consulente legale dell’ong.

La prima missione risale alla primavera del 2015, dopo l’acquisto di un vecchio peschereccio di gamberi del 1917. «Ci occupiamo della ricerca e del primo soccorso delle imbarcazioni “nascoste”, ovvero quelle che non vengono segnalate dal Centro Soccorsi di Roma, (che si occupa di coordinare via radio tutti i soccorsi n.d.r.),» continua Linardi. «Il monitoraggio delle acque è fondamentale per salvare chi non può chiedere aiuto. Gli scafisti non si imbarcano quasi più coi migranti e diverse imbarcazioni non sono dotate di tele- fono satellitare». Nell’ultimo anno l’ong ha salvato 7mila persone, garantendo la presenza costante di un equipaggio di 13 volontari, che cambia ogni 15 giorni, compreso il capitano, il primo ufficiale, i macchinisti, i medici e i paramedici.

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Tra le imbarcazioni umanitarie, insieme a Sea Watch, anche le due navi di Medici senza Frontiere, quella di Sos Mediterranee e quella di Sea Eye, un’iniziativa tedesca, nata proprio seguendo l’esempio di Sea Watch. Oltre a queste anche Moas, la fondazione creata dalla coppia di imprenditori italomaltesi Christopher e Regina Catrambone che hanno lanciato la prima iniziativa di soccorsi nel 2014, autofinanziando una nave da 40 metri, con un equipaggio di circa 25 persone. Quest’anno, con una seconda nave, hanno accolto a bordo i medici di Emergency e della Croce rossa italiana. «Il 70% dei soccorsi avviene grazie ai due droni che utilizziamo per monitorare le acque», spiega Maria Teresa Sette, operatrice di Moas. Una strumentazione fondamentale che costa circa 300mila euro al mese, per un’operazione complessiva da 1 milione di euro al mese, interamente finanziata da donazioni private: «Proprio a causa dei costi, purtroppo siamo costretti a sospendere le missioni nei mesi invernali».
L’impegno della società civile non basta insomma a supplire interamente il vuoto lasciato dalle istituzioni. «Siamo consapevoli di essere parte di un gioco politico», interviene Linardi, «il fatto che ci siamo noi volontari, ad offrire soccorso, in qualche modo può rendere più giustificabile l’assenza dei nostri governi, il punto è che non abbiamo scelta». Non esserci significa lasciare morire la gente e se si è visto cosa succede nel Mediterraneo, tornare indietro è impossibile. Chiosa Mosso: «Una volta che prendi il largo e vedi certe cose è impossibile pensare di non tornare».

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