Economia

Il manager 4.0? Sarà un orchestratore

Il divide cruciale, per le piccole e medie imprese italiane, non sarà quello tecnologico o digitale quanto quello di mentalità. Per questo servono "manager di connessione", perché lo stabilimento 4.0 ha bisogno di avere intorno tutto un ecosistema 4.0

di Sara De Carli

La ricerca "The Future of the Jobs" presentata al World Economic Forum afferma che prossimi anni, fattori tecnologici e demografici influenzeranno profondamente l’evoluzione del lavoro. Si creeranno 2 milioni di nuovi posti di lavoro e contemporaneamente ne spariranno 7 milioni di vecchi, con un saldo netto negativo di oltre 5 milioni di posti di lavoro. In Italia è previsto un pareggio, con 200mila posti creati e altrettanti persi. Cambieranno le competenze e le abilità ricercate. Occorreranno nuove figure, in particolari figure capaci di creare connessione tra il grande e il piccolo, tra i saperi trasversali, tra l'online e l'offline.

È stata questa la figura al centro del recente evento "Forum Industria 4.0 – [Dis] Occupazione tecnologica", in cui Marco Travaglini ha tratteggiato con forza questo nuovo “manager della connessione”, partendo dal fatto che il divide cruciale non sarà in futuro tanto quello digitale quanto lo human capital divide tra piccola e grande impresa. Saranno loro a colmare il divario tra grande e piccola impresa, a dare ossigeno ai piccoli e medi imprenditori, ad aiutarli a superare la dimensione locale, aiutandoli almeno a ‘interregionalizzare’ se non a internazionalizzare: perché il piccolo imprenditore non può affrontare da solo la digitalizzazione né permettersi una squadra di top manager che lo facciano per lui. Ma come deve essere questo manager 4.0? Ne abbiamo parlato con Riccardo Maiolini, esperto di innovazione sociale, tra i fondatori dell’Associazione ItaliaCamp, professore alla John Cabot University di Roma e curatore del Primo rapporto sull'Innovazione Sociale in Italia (2013).

Ci stiamo preparando o no a questo futuro?
Perdiamo posti di lavoro, nei percorsi classici e nelle figure professionali classiche c’è declino ma d’altra parte, è noto, ci sono professionalità che non si trovano. Di programmatori, esperti di big data e di sicurezza informatica c’è tanta domanda e poca offerta. I tempi di reazione delle università per rispondere alle nuove domande sono lunghissimi, penso ad esempio agli Anni ’80, quando servivano informatici, tutti si sono iscritti a informatica poi quando sono usciti, cinque anni dopo, erano disoccupati perché lo scenario era già cambiato. Nelle università hanno successo i master, un po’ perché c’è bisogno di studiare sempre di più e l’università non basta, ma soprattutto perché i master durano un anno e un anno come rapidità di risposta è ragionevole. Non tutti però: nel mio settore, le business school, i master generalisti hanno difficoltà, mentre hanno molto successo quelli a catalogo, con l’azienda che chiede di fare formazione su uno specifico tema. Il tema è quanto cambia rapidamente la richiesta e quanto chi si occupa di formazione riesce a starci dietro.

È la questione delle competenze?
Se si guarda solo alle competenze immediate e si abbandona la teoria, le persone hanno un problema: sanno risolvere casi specifici, sanno fare copia e incolla del caso studiato, ma quando il caso cambia? Io insegno digital marketing, oggi gli studenti mi chiedono come funzionano sistema pubblicitari di Facebook o AdWords di Google, ma se domani Facebook chiude? E se nasce un nuovo strumento? Impari a usare tutti gli altri strumenti se hai la teoria, è necessario bilanciare i due aspetti.

E le soft skills: davvero saranno queste a far la differenza?
Le capacità trasversali sono fondamentali, perché sono quelle che fanno un buon e bravo decisore. Ciò che fa un manager è il fatto che il manager prende decisioni. Relazionarsi, gestire il conflitto, essere creativo… sono tutti aspetti utili a prendere decisioni. Siamo bravi se non siamo meri esecutori ma se abbiamo capacità di prendere decisioni. L’artigiano diventa imprenditore quando non solo è bravo personalmente a fare un’attività manuale, ma la spiega a un altro, delega, è capace di far crescere e così cresce. Altrimenti resta solo lui. In questo senso sono utili le soft skills, si tratta di rendere replicabile – in senso buono – una determinata abilità.

Nel report per Industria 4.0 – [Dis] Occupazione tecnologica si legge che «lo stabilimento 4.0 ha bisogno di avere intorno tutto un ecosistema: mobilità, territorio, rigenerazione urbana…», si parla di «interconnessione fra macchine e persone e culture diverse». Perché il tema industria 4.0 interessa non solo l’industria manifatturiera ma tutti? Anche il sociale?
Tutto il mondo dei servizi, della ristorazione, degli eventi, del turismo… tutti possono digitalizzare i propri servizi. È un passo verso un mondo nuovo. Un panificio ad esempio può avere un mobiletto smart, con sensori e QRcode, l’azienda con questo strumento dà un valore aggiunto, nel suo piccolo, ma non bisogna scalare nel mondo. Sul sociale si aprono tantissimi scenari, ad esempio sull’assistenza, che non cresce più di tanto ha il vincolo di essere a contatto con le persone. Invece se qui dentro porti un sistema informatizzato anche semplice, se permetti la collaborazione, la condivisione dell’assistenza, si aprono nuovi mondi. Però servono persone che capiscano questo e facciano mediatori culturali tra i vecchi imprenditori e il nuovo mondo, anche nel sociale.

Prima che industria 4.0 in Italia servono mentalità e uomini 4.0? Quindi come vanno ripensate istruzione, formazione, educazione?
Speso in Italia dimentichiamo il contesto. Sono le piccole e medie imprese che fanno il made in Italy, è importante perché tutti i modelli di crescita e di sviluppo tipici dei grandi, in Italia non funzionano. Gli imprenditori di realtà con 40 dipendenti e milioni di euro di fatturato non hanno la capacità di fare innovazione, non hanno tempo, non sono organizzati… sono sempre presi dagli aspetti operativi, non hanno tempo per creare un modello: ma se non organizzi e lavori sempre sull’emergenza non puoi crescere. In questo senso servono persone 4.0 che possano creare ponti di conoscenza tra imprese e fori di innovazione (azienda, startup, università, altre imprese….), che portino dentro all’azienda un punto di vista diverso. La piccola impresa ha bisogno di figure che siano intermediari, oggi si usa molto la parola orchestratori: qualcuno che intermedi fra diverse realtà e crei valore dentro il sistema, come fa un direttore d’orchestra, che mette tutto il suo talento ma risultato finale è collettivo. Dobbiamo costruire e formare figure professionali che facciano da temporary manager o personal manager, da orchestrator. L’altro elemento interessante sono le startup: i percorsi formativi sulle startup tendono a dire fai la tua startup, diventa imprenditorie, ma non tutti in realtà hanno le caratteristiche per farlo. Impariamo invece a lavorare nel mondo delle startup, non come imprenditori per forza ma come esperti delle startup, che hanno dinamiche loro, regole di gioco loro. Poi domani, se vuoi, diventi imprenditore. È falso il mito che le startup le si fondino a 18 anni nei garage di casa, negli USA l’età media di chi fonda una startup è 43-45 anni, gente che sa come funziona quel mondo. Anche in Italia, se vedi quelle che funzionano sono tutte fondate da persone giovani ma con esperienza nel settore.

A leggere i report che disegnano gli scenari futuri, sembra che nella complessità ci sarà lavoro solo per figure professionali elevate? E gli altri? Che fanno?
Bella domanda. Certo, più specifiche sono le competenze e maggiore può essere la capacità di sapersele vendere, più la forza lavoro non è qualificata e meno ha valore. È così. Non c’entra l’industria 4.0 e nemmeno l’immigrazione: io lo dico sempre, tutto lo spavento per i migranti che leggo, se ti fanno paura vuol dire che tu pensi di valere meno…

Foto Andrew Branch / Unsplash


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