Dispersione scolastica
Il male della scuola? Essere “un mondo a parte”
La scuola non è ancora riuscita a collegare ciò che si impara fra le sue mura con il mondo fuori. Anzi, pretende di lasciare fuori dalla scuola pezzi di vita, per esempio gli smartphone. È lecito immaginare che alcuni ragazzi facciano fatica a sostenere questa schizofrenia temporale che gli chiediamo di vivere? Che soffrono di più questa distanza tra il dentro e il fuori? Una rilettura dell'abbandono scolastico che non si limita a dare la colpa ai ragazzi che se ne vanno
I giovani e la scuola sono tra gli argomenti meno affrontati dai media mainstream, in particolare si parla pochissimo di “drop-out”, ossia dei ragazzi che abbandonano la scuola prima di concludere gli studi: un fenomeno in realtà piuttosto diffuso.
Su VITA, nella veste di genitore di un ragazzo con sindrome di Down, ho già riflettuto sulla “pratica dell’inclusione”, ovvero sull’efficacia dell’apprendimento che si realizza attraverso l’esperienza concreta e condivisa. Questo tipo di approccio non riguarda solo le persone con disabilità intellettiva, ma anche moltissime ragazze e ragazzi che semplicemente fanno fatica a stare sui banchi di scuola.
Partiamo da un presupposto: la scuola non è scuola se ciò che si impara dentro le sue mura non è collegato con il mondo che è fuori.
Il sogno degli anni Ottanta
All’inizio della mia carriera come docente della scuola primaria, verso la fine degli anni Ottanta, scoprii l’esistenza di tutto un filone di sperimentazione didattica basata su modelli collaborativi, un filone nato in Italia attorno agli anni Sessanta e che conta nomi prestigiosi come don Lorenzo Milani, Mario Lodi, Loris Malaguzzi e prima ancora Maria Montessori. In quegli anni, durante l’esperienza di ricerca con il prof Roberto Maragliano dell’allora Laboratorio Tecnologie Audiovisive dell’Università Roma 3, insegnavo come maestro nel quartiere di Tor Bella Monaca a Roma e il mantra era proprio questo: i contenuti della scuola devono essere trattati attraverso una didattica che consenta di relazionarsi col mondo di fuori, per poterci stare dentro. All’epoca le tecnologie digitali iniziavano a entrare tra le nostre abitudini quotidiane ed eravamo convinti che anche la scuola doveva rinnovarsi.
La scuola non è scuola se ciò che si impara dentro le sue mura non è collegato con il mondo che è fuori. Ancora oggi non siamo riusciti a colmare quella distanza
Nonostante gli sforzi di tutto un movimento di docenti della scuola e delle università, ancora oggi non siamo riusciti a colmare quella distanza tra la scuola e il mondo che la circonda. Ci sono studenti che soffrono in modo particolare questa distanza, al punto tale da ritenere inutile frequentare la scuola: ecco il drop-out.
I drop out e l’insostenibilità della “doppia vita”
Questi studenti spesso finiscono nel “paese dei dimenticati”, catalogati nel macro contenitore della “dispersione scolastica”. Spesso sono ragazzi che non essendo stati accompagnati in modo adeguato dalla famiglia, vivono la scuola come mondo “altro” dal loro quotidiano. In molti casi la scuola definisce inadeguati questi ragazzi, spesso addossando le colpe ai loro genitori. Ed è qui a mio parere che il ragionamento deve prendere un’altra piega: invece di cercare la colpa dovremmo cercare la causa che alla fine dei conti condanna questi ragazzi.
Fra i giovani, specialmente nelle periferie delle grandi città, compaiono ogni giorno nuove manifestazioni di insofferenza che non trovano ancora un nome nel mare delle neuroscienze. Ragazzi e ragazze che non hanno riferimenti, che ricercano comunque e come possono un’identità dentro e fuori la scuola. Tra le varie problematiche comportamentali un esempio ormai diffuso è il disturbo oppositivo provocatorio, che si riferisce a coloro che si oppongono a quasi tutte le attività proposte dagli insegnanti. Ma non ci sono solo comportamenti definiti aggressivi: ci sono anche ragazzi, specialmente tra gli adolescenti, che non parlano mai, si isolano e per questo sono anche soggetti a fenomeni di bullismo. Fino a qualche tempo fa i ragazzi o le ragazze per cui veniva richiesto un insegnante di sostegno avevano una diagnosi, ma oggi le segnalazioni e le richieste aumentano anche in relazione a casi difficili, casi che spesso hanno a che fare con un comportamento che non si allinea con quello della maggior parte degli alunni della classe. Davvero non c’è nulla da fare per questi ragazzi?
Ci sono studenti che soffrono in modo particolare questa distanza, al punto tale da ritenere inutile frequentare la scuola: ecco il drop-out. Davvero non c’è nulla da fare?
Quanto può essere vera la famosa frase di Don Milani quando definisce la scuola come «un ospedale che cura i sani e respinge i malati»? Ma poi sono davvero malati questi studenti?
La responsabilità della didattica
Al di là degli studi che vengono fatti per identificare le cause di tali comportamenti, vorrei porre l’attenzione innanzitutto sui modelli didattici proposti e che almeno in parte potrebbero avere un effetto benefico su tutti i ragazzi, sia per quelli definiti bravi, sia per quelli definiti meno bravi.
Cosa differenzia la didattica moderna da quella del passato? Detta in modo semplice, nel passato l’apprendimento si sviluppa quasi esclusivamente attraverso azioni esecutive e ripetitive. C’è un’immagine sintetizza quel modello: l’insegnante in cattedra che spiega, indica gli esercizi da fare e gli studenti che possono intervenire solo se interpellati (le interrogazioni). Nella didattica moderna al centro della classe sono gli studenti che in piccoli gruppi studiano e ricercano secondo modalità collaborative, soluzioni ai problemi (problem solving) che il docente pone loro. Lavorare per piccoli gruppi vuol dire anche mettere insieme studenti e studentesse con caratteristiche e capacità di apprendimento diverse: in questo modo non solo si impara a studiare insieme, ma si mette in pratica un atteggiamento fortemente inclusivo.
Nel nostro paese la scuola è per lo più ancorata al passato e la conferma più evidente l’abbiamo nelle strutture edilizie fatiscenti: scuole vecchie per una didattica vecchia
Nel nostro paese però la scuola è per lo più ancorata al passato e la conferma più evidente l’abbiamo nelle strutture edilizie fatiscenti: scuole vecchie per una didattica vecchia. Avere davanti i nostri occhi lo stesso scenario, lo stesso ambiente, la stessa aula di cento anni fa ci fa credere che l’unica immutabile realtà della scuola sia quella. Moltissimi dei nostri figli frequentano nel 2024 una scuola di cento anni fa. Come è possibile che un ragazzo o una ragazza possano vivano quotidianamente in due dimensioni temporali distinte? È lecito supporre che non tutti gli studenti riescano a governare agevolmente questa doppia dimensione?
C’è un altro elemento che complica le cose: la socializzazione. Se da un lato la scuola rifiuta la tecnologia o al massimo la ripropone secondo il vecchio modello (la Lim, percepita come uno strumento nelle mani dell’insegnante), dall’altro i ragazzi comunicano quotidianamente a distanza attraverso gli smartphone, usando per un verso un linguaggio povero, essenziale (ad esempio con la messaggistica), ma per altri versi molto complesso grazie ad altre forme comunicative come il video, l’audio e l’Intelligenza Artificiale. Ma se non c’è cultura e conoscenza si diventa vittime di un flusso incontrollato di informazioni: sono la conoscenza e la cultura che possono invece aiutarci a cercare il bandolo della matassa. Non si tratta quindi di “vietare” uno strumento come lo smartphone, ma di imparare a gestirlo. Moltissime informazioni oggi passano da Internet e la scuola non può esimersi dall’usare strumenti che permettono di attingervi, piuttosto deve adottare nuove strategie per elaborarle.
I dati che mancano
Dei tanti studi statistici che vengono fatti e portati all’attenzione pubblica, mancano numeri aggiornati dei ragazzi che abbandonano la scuola. Mancano i numeri dei risultati ottenuti nelle poche scuole dove invece viene praticata una didattica moderna verso le scuole che sono ancorate ad una didattica tradizionale. Mancano a livello nazionale i numeri collocati nel tempo di studenti e studentesse con problemi che usufruiscono di un insegnante di sostegno e dell’evoluzione del loro percorso. La comunicazione di massa si occupa di altro. Domandarsi cosa fanno i più giovani non è considerato tema di interesse. I giovani non sono valorizzati e i più capaci, con le idee chiare, sono costretti ad andare fuori dall’Italia. Non mi stupisco se i più giovani hanno una bassa considerazione degli adulti, d’altra parte loro imparano dagli adulti: gli adulti per primi non “ascoltano” i più giovani. Fare autocritica non va più di moda, eppure l’autocritica è il passpartout per entrare in contatto con un mondo diverso da quello che conosciamo oggi.
Giuseppe Moscato è docente di scuola primaria, ex comandato dal 2005 al 2024 presso Indire
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