Non profit

Il made in Italy che non parla italiano

Il boom degli immigrati nel settore dell'abbigliamento

di Redazione

Ormai oltre il 15% delle sartorie è guidato da stranieri. Ancora più elevata la loro presenza nel settore delle calzature. Nel
frattempo le scuole
di formazione continuano a importare talenti. Ma c’è chi non è d’accordo Gli imprenditori immigrati si affermano nel made in Italy. A partire dalla moda, dove oltre un’azienda artigiana su sei è straniera. Ben 1.156 sartorie, pari al 15,7% delle 7.359 presenti nel Belpaese, che parlano una lingua diversa dall’italiano. Cui vanno aggiunte 555 ditte che fabbricano calzature, il 16,3% del totale, e 120 che confezionano abbigliamenti in pelle, addirittura una su cinque. In tutto 1.831 imprese, stando ai dati elaborati dalla Camera di commercio di Milano sulla base del registro nazionale aggiornato al settembre 2009, che tiene conto però solo degli immigrati che lavorano in proprio. Calcolando anche i dipendenti, in tutto il settore della moda italiana il personale straniero è pari a ben 30mila unità. A calcolarlo è, in questo caso, Cna Federmoda, secondo cui si tratta di circa il 3% degli immigrati occupati in Italia e di uno su 30 dei lavoratori totali attivi nell’abbigliamento. Un dato destinato a crescere se si pensa che le previsioni per il 2008 (poi riviste in seguito alla crisi) erano tra 4.480 e 5.460 assunzioni di stranieri, cioè dal 18,2 al 22,1%.
Numerosi anche i giovani giunti dall’estero per apprendere una professione nell’abbigliamento. Da una indagine dello Iulm risulta che su 3.423 studenti delle scuole di moda milanesi, 1.108 (il 34,16%) sono stranieri. Grazie ai dati di InfoCamere, che ha censito le 1.069 sartorie con titolari extracomunitari presenti in Italia, è inoltre possibile stilare una classifica per nazionalità. Ben 95 le aziende gestite da nigeriani, 58 da ucraini, 48 da albanesi e 47 da marocchini. Anche se il primato va ai cinesi, che arrivano a quota 320. In tutto 67 gli Stati non comunitari rappresentati, tra cui anche Afghanistan (tre sartorie), Burkina Faso e Capo Verde (due a testa), Iran e Iraq (una). Per il responsabile nazionale di Cna Federmoda, Antonio Franceschini, «la presenza di immigrati consente un arricchimento di cultura e di esperienza e permette di mantenere costante la produzione».
Più cauto Marco Accornero, segretario dell’Unione artigiani di Milano, per il quale «spesso gli immigrati si limitano a riparare gli abiti già realizzati, posizionandosi in una fascia medio-bassa del mercato». Emblematico il caso di Stelian Mosor, uno stilista romeno di 27 anni che a febbraio ha aperto una boutique in corso Lodi a Milano, con l’obiettivo di lanciare la sfida alle grandi firme come Valentino e Dolce&Gabbana. «Il 30 ottobre i miei capi per l’autunno/inverno sfileranno sulle passerelle milanesi», rivela Mosor. «Si tratta di abiti che ho disegnato, tagliato e cucito completamente da solo e che stanno iniziando a farsi conoscere in tutta Europa. Ho già ricevuto richieste da Parigi, Londra e Mosca per esporre le mie collezioni nei negozi più esclusivi».

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