Cultura
Il lungo esilio della parola. Dialogo con Norman Manea
Cinque anni in un campo della Transnistria, l'infanzia passata tra il filo spinato e il rischio di non tornare più. Poi i giorni della scrittura silenziosa, in Romania, durante il regime, quando lavorava come ingegnere. Infine, nel 1988, il viaggio verso New York, dove oggi insegna al Bard College. Ecco Norman Manea, scrittore ostinatamente romeno, che nella sua lingua "minore" vede una sorta di "placenta dell'essere"
di Marco Dotti
«In principio era la parola – ci dicono gli antichi. Per me la parola del principio fu romena». Nato in Bucovina nel 1936, in una regione al tempo fortemente animata dal plurilinguismo (romeno, yiddish, ucraino, polacco, lo slavo dei ruteni e poi il francese dei commerci e il tedesco delle élites), gli anni dell'infanzia – cinque, dall'ottobre del 1941 all'aprile del 1945 – trascorsi in un campo di concentramento in Transnistria, Norman Manea inizia così la propria riflessione su quella che ama chiamare la «lingua nomade», la «lingua domicilio», la «lingua placenta». Questa lingua nomade, domicilio e placenta per lui era e continua a essere il romeno.
Persino oggi che – dopo gli anni durissimi del regime passati tra la scrittura e lo studio notturno e l'attività di ingegnere – vive a New York, dove si è trasferito nel 1988 e insegna in una piccola, ma famosa università privata, il Bard College.
«L'ebraico lo studiai solo per un anno, verso i tredici anni, quando dovevo essere ammesso, solennemente, tra gli "uomini" della tribù, ma, sorprendentemente, ancora oggi, quando meno me l'aspetto, riaffiorano dei residui. Al liceo, imparai il francese e dimenticai molto del russo, perché ero stufo di approfondire ciò che mi pareva di sapere fin troppo bene. Il russo era diventato la lingua degli "occupanti"; il francese, per contro, l'avrei ripreso con rinnovato impegno negli anni della maturazione, perché mi facilitava il contatto con la stampa e i libri occidentali».
Tra tutte queste variabili, schegge di linguaggi altri, per Manea esiste però un'invariante, «qualcosa di insanabile, come fosse il nucleo della propria anima e questo nucleo è la lingua». La lingua romena. In romeno Manea continua a scrivere i suoi romanzi – l'ultimo, Vizuina, apparso nel 2011 per Il Saggiatore, nella traduzione di Marco Cugno («un amico, un uomo dalla grande cultura, un uomo di vero cuore») con il titolo Rifugio magico – e i suoi racconti. Proprio un libro di racconti, edito sempre dal Saggiatore e tradotti dallo stesso Cugno e da Anita Natascia Bernacchia, Varianti di un atutoritratto (pagine 282, euro 19), è l'ultima fatica di Manea arrivata in questi giorni in libreria.
Lo incontriamo a Milano. Quella che segue è la prima parte della nostra intervista (la seconda parte uscirà sabato prossimo).
Nel suo ultimo libro, un racconto di poche pagine, tra i più duri e toccanti, ci porta fin dal titolo – Il tè di Proust – sul terreno del ricordo e del radicamento delle ombre nella memoria. In una sala, dove si aspetta un treno che tarda a arrivare, dove l'ennesimo smistamento divide gli abili e gli inabili al lavoro, davanti agli occhi di un bambino ha luogo una piccola cerimonia, «impossibile ma reale». È quasi un'iniziazione al ricordo: un'infermiera della croce rossa offre tè e biscotti. Si apre così il gioco della memoria. Un gioco dove la posta è l'esperienza del tempo o, per meglio dire, di una verità che si dispiega, si nasconde, riaffiora nel tempo.
Norman Manea: In quel racconto, entra in scena una madeleine. Entra in scena in condizioni storiche mutate, ovviamente, rispetto a quelle vissute da Marcel Proust nel celebre episodio dellaRecherche. Siamo tutti feriti dalla storia, ma siamo feriti in modi e maniere diverse. Proust possedeva una sensibilità unica, colpita dalla vita quotidiana, dalla banalità di ogni giorno. Ma le cose mutano quando si è feriti da avvenimenti tragici che trasfigurano e sfregiano anche il quotidiano. La sensibilità del ragazzino al cuore del mio racconto è così una sensibilità educata dalla grande catastrofe, più che alla noia. Formata e deformata dal sangue. Vive nel pericolo, nell'incertezza, ha pochi anni ma ha già fatto esperienza della precarietà estrema. In queste mutate condizioni dove la fame, la disperazione, la paura e la morte premono, appare un principio di ricordo. Un'epifania, chiamiamola così. Impara a proteggere il ricordo, senza paralizzarlo. Lo assapora, proprio mentre sta per sfuggirgli, come il biscotto che gli viene dato col tè. Forse davvero, come scrivo nel racconto, le anime di coloro che abbiamo perduto vanno a nascondersi nelle cose inanimate. E il tempo non si dà ordine, nella memoria. Affiora e riaffiora nelle sensazioni, come in blocchi di passato inerte che, improvvisi, irrompono alle nostre spalle. Si sradicano dal passato e irrompono nel presente.
Accade anche con le parole, con la lingua e con la letteratura, In fondo è stato ancora Proust, prendendo le distanze dalla critica personalistica e sterile, a ribadire che i grandi libri sono sempre scritti in una sorta di lingua straniera. Proprio quando crediamo di averli compresi, ci sfuggono. E quando ci sfuggono è forse solo lì, in quel momento, che ci approssimiamo a comprenderli. Per lei questa lingua straniera coincide più che mai con la lingua romena…
Norman Manea: La lingua e la letteratura erano per me un rifugio. Un rifugio dalla banalità quotidiana. O meglio, più che un rifugio, erano una vera protezione. La sola che avevo, in Romania, quando sono tornato dal campo di detenzione e ho cominciato a leggere, a studiare, a scrivere. Mi sono costruito una fortezza, dove poter coltivare qualcosa che non sapesse di stereotipo. Ho edificato muri molto spessi che la censura non poteva abbattere o la polizia segreta attraversare. Nella mia stanza ero solo. Solo con la mia pagina bianca. Non dico che quelle pareti fossero totalmente impenetrabili. Nulla è impenetrabile, dinanzi a una forza che prevarica. I poteri penetrano anche nella tua stanza, anche nella tua solitudine. Questo è precisamente il senso dell'aggettivo "totalitario". Ma anche nella totalità, dentro quello spazio chiuso, davanti a quel bianco si potevano elaborare linee di strategia e di fuga. Non per fuggire tatticamente e fisicamente, ma per rivalorizzare e ridare valore e senso alla vita attraverso la parola e la lingua. Fuori da queste linee, un'altra lingua cominciava infatti a prevalere: era la langue de bois, la lingua di legno dello Stato e dei suoi funzionari. Quella che in qualche modo bisognava aggirare – ma non era facile e, forse, oggi nemmeno a tutti e del tutto è comprensibile – era l'onnipervasività saturante del vuoto. Borges diceva che la censura è madre della metafora. Aggiungerei che è madre delle sfumature, del non detto, dei trucchi, dei piccoli segni deflagranti che talvolta potevano apparire innocui chi non sapeva leggere tra le righe. La letteratura, allora, era chiamata a svolgere anche una funzione che altri – i giornali, ad esempio – non erano più in grado di svolgere. Quando viviamo immersi in un ambiente totalitario, dove la lingua viene prosciugata, insterilita, conservare la lingua, custodirla, è un gesto clandestino, spesso condotto in solitudine, ma nella convinzione che non si è soli e, dall'altra parte del muro, qualcuno che non è un delatore o un censore saprà ascoltarti. La lingua custodisce l'umano, proprio nel punto in cui il potere mira a soffocarlo. Accettare che la parola diventi completamente muta o sterile significa accettare l'indifferenza assoluta.
Nel 1979, lei affronta il suo primo viaggio fuori dalla Romania, ma decide di tornare. Il Paese lo lascerà definitivamente solo nel 1986, poco dopo aver dato alle stampe Plicul negro (La busta nera, Il Saggiatore 2009). Torniamo però a quel '79: lei è a Berlino, poi a Parigi e Venezia. A Berlino ha la possibiltà di seguire la strada dell'asilo politico, come molti altri esuli, pensiamo a Cioran. Come loro, poi, potrebbe abbandonare la lingua madre e diventare a tutti gli effetti uno scrittore francese o tedesco. Nel Ritorno dell'huligano (Il Saggiatore, 2004), lei racconta di quando un funzionario di ambasciata le suggerì proprio questa strada. Perché non l'ha fatto e anche oggi, che vive a New York, lei continua a scrivere in romeno?
Norman Manea: Nel 1979, la parola "Patria" significava per me la lingua in cui sono nato. E la lingua in cui sono nato è il romeno. Potremmo chiamare questa lingua madre una lingua placenta. Come una placenta ci alimenta e da noi, per osmosi, è alimentata. Ricordo che quando sono stato forzato a emigrare, perché le condizioni erano divenute oramai insostenibili, non avevo soldi, non avevo niente. Rischiavo allora di perdere anche la mia lingua: sottopormi a un trapianto radicale? Cioran è diventato un maestro della lingua francese. A che prezzo? Fuori dalla Romania, mi accorsi così che la mia unica ricchezza, ossia la lingua, era diventata bruscamente inutile. Attorno a me tutti parlavano inglese. Ero sordo, ero muto, ero in una condizione di mutilazione quotidiana. Anche qui serviva una strategia e serviva, soprattutto, una linea di fuga. Superate le prime difficolta e imparato ciò che mi serviva per districarmi tra le faccende quotidiane, mi accorsi che una volta fuori, una volta andato in esilio intendo, la lingua dentro ti segue. Pragmaticamente – in questo mondo che si illude di vivere solo di traffici e commerci – la chiameremmo "inutilità", ma spiritualmente questa la chiamiamo "ricchezza interiore". Quando ti trovi in esilio, ti accorgi che sei tu a doverla custodire, questa ricchezza, non è soltanto lei a custodire te. Te la porti addosso, non solo dentro, questa lingua, come una conchiglia. La lingua della ricchezza interiore e della letteratura diventa pienamente una componente spirituale, se così possiamo dire. Parli in inglese quando vai per strada, quando insegni, ma poi, se devi scrivere, pensare, è sempre alla madre che torni. Questo, però, non significa che non affiorino altre parole, di altre lingue. Questo non significa che la lingua nel suo complesso non sia sempre pronta a prenderci alle spalle. Oggi io vivo a New York, una città che chiamo la "capitale Dada" dell'esilio. Sono in quello che molti considerano il centro del mondo. In un mondo, però, che non ha più un centro.
Di questo mondo senza centro, ma pieno di nicchie, lei fa cenno in quello che, a oggi, è il suo ultimo romanzo, Vizuina (Rifugio magico). In questo romanzo, dove in controluce si vedono le figure di Mircea Eliade e Ioan P. Culiano, l'equilibrio di una vita mai perfettamente integrata, mai perfettamente dissociata di tre intellettuali in esilio è rotto, se così possiamo dire, da una dura riflessione sugli attentati dell'11/9…
Norman Manea: Dinanzi all'attentato alla Twin Towers, uno di questi intellettuali parla di un grave errore commesso dagli attentatori. Se lo scopo era colpire al cuore una civiltà, bisognava colpire le biblioteche. I santuari del commercio e della finanza sono un aspetto esteriore. Ma nella biblioteca c'è in cuore, perché là c'è tutto, anche sul commercio, anche sulla finanza, anche sulla letteratura, anche sull'arte. Là dentro si trova il codice della civiltà, la sua lingua, la sua matrice. Se lo scopo è distruggere il nostro mondo – questo il ragionamento che uno dei protagonisti svolge nel romanzo – allora bisogna distruggere le biblioteche che sono uno degli ultimi centri spirituali della nostra epoca. Le biblioteche sono un rigugio dalla banalità e dall'insensatezza del dolore.
Poche settimane fa abbiamo assistito a un altro attacco, stavolta alla redazione di un settimanale satirico, in Francia…
Norman Manea: Difficile parlarne ad appena tre settimane, perché l'attentato parigino ha cambiato bruscamente l'atmosfera in cui i nostri discorsi si muovono. Ha buttato al centro della scena globale una rivista che non era conosciuta ai più e ha di fatto creato un evento – sia detto con tutto il rispetto per le vittime e la più ferma condanna per qualunque atto di violenza: uccidere in nome proprio o di una fede o di un ideale o di un principio. Sul terreno dei fatti parigini si è creato un evento che non ha prodotto molta riflessione, ma grande reazione.
Un evento senza lingua che lo nomini, lo affronti, ne discuta, se ne faccia letteralmente e coscientemente carico… Come se mancasse un filtro e la mediazione fosse diventata unicamente, nel senso etimologico, pornografica: sovraespone l'evento, saturando ogni spazio di reattività non emotiva…
Norman Manea: Sospendiamo la riflessione su cose appena successe e concentriamoci allora sul cambio di atmosfera che, per esempio, ha toccato il discorso delle fedi. Parlarne in forma unicamente derisoria o banalmente ateista è davvero una strada per capire? Io che non sono religioso – ma vorrei capire – posso anche provare a pensare che la religione per tante persone sia un modo per uscire dalla frivolezza e dalla banalità. La modernità è sottoposta a numerosi attacchi. Non solo dall'esterno, anche all'interno abbiamo pressioni. Ma nascondere le disuguaglianze economiche, le nuove e le vecchie povertà, il debito infinito dietro la maschera dello scontro di civiltà è la strada più comoda. La Grecia non ce la fa? Affondiamola nel debito, ci viene detto. Ma se guardassimo alla vera ricchezza, quella delle biblioteche ad esempio, scopriremmo che in Grecia si traducono tanti libri quanti se ne traducono negli Stati Uniti. Dove sta la ricchezza spirituale e culturale, allora? Nella piccola Grecia che traduce tanto o nei grandi States che traducono poco? La traduzione ci interroga sulle differenze, sull'altro – ricordiamocelo sempre. E chi si sta indebitando davvero, allora, sul piano culturale, corrodendo le proprie riserve di ricchezza, i propri rifugi?
Per citare il Paul Celan del Meridiano – anche lui nato in Bucovina, a cui lei ha dedicato i saggi di Al di là della montagna, Il Saggiatore 2012 –, possiamo partire da un luogo sperduto e apparentemente marginale del mondo, oppure trovarci con una lingua "minore" nel supposto centro del mondo, ma se abbiamo l'arroganza di chiudere il semicerchio della nostra ricerca, allora non si produce altro che disastro…
Norman Manea: Per non chiuderlo e per citare una famosa opera di Lev Šestov, credo serva una nuova alleanza, un dialogo continuo, non una contrapposizione fra Atene e Gerusalemme. Serve circolazione, letteralmente serve traduzione. Circolazione tra un centro razionale (Atene) e un cuore spirituale del nostro mondo (Gerusalemme, come centro simbolico-spirituale). Il problema dello straniero, in tutte le sue forme, in tutte le sue sfaccettatura, il problema dell'alterità ci interroga oggi più che mai su questa circolazione. Isolarsi significa cedere il passo. All'esilio della parola, consegue allora il suo svuotamento, il suo disastro. La parola impagliata non parla, né vibra. Muore. Non c'è più meridiano, allora, ma una linea retta tesa da noi al nulla.
@oilforbook
Nato in Bucovina nel 1936, Norman Manea è sopravvissuto alla persecuzione nazista, dopo essere stato internato, sotto il regime di Antonescu, in un campo ucraino dal 1941 al 1945. Ha vissuto in Romania gli anni bui della censura e del progressivo irrigidirsi del sistema-Ceauscescu, esercitando fino al 1974 la professione di ingegnere. Nel 1986, ha scelto di vivere a New York, dove oggi insegna, lasciando definitivamente la Romania ma continuando a scrivere nella lingua madre. I suoi libri, in Italia, hanno trovato un traduttore d'eccezione in Marco Cugno e sono tutti editi dal Saggiatore. L'edizione italiana della Busta nera (2009), a differenza di quella inglese, grazie al lavoro di Cugno sulle stratificazioni linguistiche di Manea è pubblicata in edizione integrale. Al racconto (Felicità obbligatoria, 2008) e al romanzo (Il ritorno dell'huligano, 2004 e Rifugio magico, 2012), Manea affianca un'ispirata attività saggistica, tra cui le conversazioni con Saul Bellow (Prima di andarsene, 2009) e quelle a distanza con due poeti romeni, Paul Celan e Benjamin Fondane (Al di là della montagna, 2012). Particolarmente utile, per capire l'universo e il contesto dell'Autore è il volume di interviste di Stein Hannes, sempre edito dal Saggiatore, Conversazioni in esilio (2012).
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