Volontariato

Il lobbista buono

di Giulio Sensi

Non lo fanno di professione e infatti lo fanno spesso con poco tempo a disposizione, dunque male. Solitamente non chiedono provvedimenti a loro diretto vantaggio, ma a vantaggio, o ancora più spesso a non svantaggio, del pezzo di società con cui operano. I lobbisti “buoni” sono in mezzo a noi, a volte siamo noi, a volte siamo ascoltati a volte no.

Alcuni finiscono loro stessi nelle stanze dei bottoni e lì inizia la fatica.

“Alt -mi ferma subito nell’intervista Maria Cristina Antonucci-. Più che di lobbying si dovrebbe parlare di rappresentanza degli interessi, secondo il modello italiano che è ancora, anche se il governo Renzi sta cambiando molte cose, basato sul neo-corporativismo, cioè la cooptazione istituzionale delle rappresentanze organizzate”.

Antonucci è una ricercatrice in scienze sociali del Cnr. Da molti anni studia teoria e pratica della lobby nel mondo e in Italia. Interessata, e appassionata, anche alle vicende del terzo settore, si è trovata a svolgere una ricerca mai fatta: indagare, appunto, come il terzo settore fa lobbying. Ha intervistato una trentina di responsabili di associazioni di secondo livello e grandi associazioni, nonché i responsabili di significativi Centri di Servizio al Volontariato.

L’idea nasce durante il governo Monti, esecutivo non proprio tenero nei confronti delle istanze del terzo settore, ad iniziare dalla chiusura dell’Agenzia per il terzo settore e dai tagli ai Fondi nazionali per le politiche sociali. “Un settore in grande crescita -spiega Antonucci- che manifestava però qualche difficoltà di dialogo con le istituzioni politiche, che decidevano poi sulla sua autonomia. Volevamo comprendere quali erano i passi da fare in un contesto istituzionale difficile”.

Nel frattempo il governo Monti si ferma dove era partito e arrivano i numeri a dare manforte al terzo settore, con la fotografia dell’Istat scattata durante il censimento delle istituzioni non profit. Il peso c’è. “E’ stato un punto di svolta, perché i dati sono stati utilizzati con intelligenza, e questo è stato anche grazie al ruolo di Enrico Giovannini prima da presidente Istat, poi da ministro. Istat ha ben spiegato che l’incremento del non profit riguarda sia le risorse umane, come i volontari e i dipendenti, sia gli output, cioè il valore economico della produzione”.

Tutto questo ben di Dio fa sentire la propria voce? I risultati della ricerca sono interessanti, anche se non sorprendenti.

“Emerge -spiega Antonucci- in modo approfondito che il terzo settore ormai è largamente affacciato al mondo della rappresentanza degli interessi e lo fa in maniera eterogenea, a seconda dei soggetti che la esercitano. Da una parte a livello nazionale c’è il Forum del Terzo settore che rivendica a sé qualsiasi forma di rappresentanza istituzionale in virtù di un modello neocorporativo, che si basa sull’accreditamento delle parti sociali. Dall’altra ci sono grandi realtà, come molte associazioni di promozione sociale, vicine al mondo partitico o sindacale che agiscono in maniera autonoma”.

L’operazione più efficace è alla fine quella dell’Alleanza delle cooperative, che è diventato il soggetto unitario delle tre rappresentanze dei mondi cooperativi per contare di più in Italia e in Europa ed è in grado di affrontare con successo alcune questioni importanti come lo scongiurare dell’innalzamento dell’iva alle cooperative sociali. Questo è quanto fanno le grandi organizzazioni, quelle che hanno i numeri. Le più piccole invece, ed è un problema che riguarda soprattutto il volontariato, hanno la tendenza a cercare nei centri di servizio una risposta alle proprie esigenze di farsi sentire. “Così -spiega Antonucci- anche se i Csv non hanno come mandato questa attività, di fatto svolgono un’attività non di rappresentanza, ma di intermediazione”.

È quindi il volontariato a soffrire di più: la frammentazione, la spinta di ogni soggetto a riconoscersi nella sua propria identità valoriale. Tutti elementi che non facilitano l’emergere di una sola voce. L’Italia si conferma anche in questo ambito il paese dei campanili, anche se un elemento qualifica in maniera “nobile” il lobbying dei buoni.

Riguarda le istanze che vengono portate avanti. “Si lavora di più sulle questioni di sistema -spiega Antonucci- perché ci si è resi conto che è necessario investire su una cornice differente. È un tipo di lobbying ancora iniziale paragonabile a quella della Confindustria del dopoguerra, che veramente agiva per conto e in nome del bene di tutta l’imprenditorialità italiana”.

Poi l’altro aspetto fondamentale è la rappresentanza dentro le istituzioni, con molte personalità che dalla dirigenza di organizzazioni o reti del terzo settore finiscono nelle stanze dei bottoni. “Si sviluppa un doppio canale -spiega Antonucci. Il primo riguarda la rappresentanza degli interessi dall’esterno del sistema politico, restando forza sociale; il secondo riguarda l’invio dei leader delle organizzazioni dentro alle istituzioni, nei governi, nazionale o locali, e nelle assemblee legislative. Ci sono dei rischi in queste operazioni e riguardano il fatto che una volta usciti dal terzo settore, ed entrati nel sistema istituzionale, non si riesca più ad assolvere alla missione di rappresentare la voce del sociale nella politica. E non avere chiaro che, oltre a portare gli interessi del terzo settore stesso, si deve rispondere a precise e stringenti logiche di partito”.

Il modello Renzi sta però sparigliando le carte.

“Prima il terzo settore aveva una marginalità molto forte rispetto all’agenda politica -spiega Antonucci- nonostante l’impegno non trascurabile dell’intergruppo sulla sussidiarietà. Renzi invece ha finalmente preso in considerazione non solo i grandi stakeholder economici, ma tutti i soggetti che vogliono partecipare e che sono coinvolti nell’economia sociale, proponendo il passaggio di paradigma da una riforma scritta dalla politica ad una sorta di auto-riforma del terzo settore scritta a partire dalla consultazione. Cosa che farebbe esaltare Confindustria se venisse fatta, solo per fare un esempio, sulle politiche industriali del Paese.

“E poi -spiega ancora Antonucci- ha costretto chi voleva partecipare alla concretezza, vista la puntualità delle linee guida”. Si, perché la concretezza, come l’efficacia, spesso è patrimonio dei lobbisti di professione e molto meno di quelli del terzo settore. I quali, ricordiamolo, sono lobbisti nella restante parte di tempo che non dedicano alle attività o al proprio lavoro. Lobbisti della domenica si potrebbe dire, se non paresse un po’ offensivo. Ma qualche consiglio forse è utile.

“Intanto -suggerisce Antonucci- essere chiari e trasparenti su se stessi, sulle proprie attività, sui propri beneficiari e sui provvedimenti necessari. Spesso nel terzo settore si fa lobbying più per sottrazione, ovvero per evitare provvedimenti sfavorevoli, che per ottenere leggi a favore e questo è normale per chi comincia a relazionarsi con le istituzioni. Si deve andare con le idee chiare, lasciando un ‘position paper’ formulato in modo corretto e che affronti le questioni in gioco e offra soluzioni concrete. Questo funziona anche di più a livello locale laddove l’accesso ad un decisore collettivo è più facile. Importante è lasciare sempre un documento quando si va agli incontri, una documentazione che può essere utilizzata in molti modi anche per avere più dati da parte del decisore collettivo stesso. E poi, magari, studiarsi un bel manuale di lobbying per il non profit. Ce ne sono molti americani, anche se negli States fare lobbying nel non profit è complicato, perché chi dedica parte del budget al lobbying rischia di perdere i benefici fiscali, di cui le Organizzazioni non profit si avvantaggiano”.

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