Può configurarsi come una linea d’ombra, immateriale, come quella che il giovane marinaio di Conrad decide di attraversare, riuscendo a diventare così un capitano. O si presenta di materia solida, incombente come un muro, vigliacco come un filo spinato. In ogni caso non varcabile.
Il nostro personale limite ci viene incontro in varie forme e in tempi che decide lui (e questa volta non vorrei citare la pandemia che lo ha solo esacerbato in tutte le sue manifestazioni). Ci balliamo intorno, lo assecondiamo detestandolo, lo ignoriamo ma senza successo, o lo studiamo. Cerchiamo il punto debole, dove picconare finché si crepi, o ci concentriamo per allontanarlo, spingerlo un po’ più in là. Come l’atleta, che misura i battiti cardiaci finché riesce ad aumentare la velocità delle sue gambe senza che il cuore collassi. Con pazienza e costanza lavora sul limite.
Insopportabile è la fatica di fronte al limite che cogliamo in chi amiamo: vorremmo aiutare a rimuoverlo quando ha i tratti della tristezza, del dolore, dell’avvicinarsi della morte. Solo che più proviamo a opporci, più sbattiamo contro la nostra impotenza. E sperimentare impotenza è pure, a sua volta, un risvolto del limite. Che di certo ha una natura doppia: può riguardare la sfera della nostra intimità, essere questione di come siamo fatti noi, dentro; oppure ha la tenuta dei fatti esterni, delle circostanze che ci “sottomettono”, volenti o nolenti. Ma l’una e l’altra natura non sono separate, potrebbero sembrare indipendenti, invece no, si rincorrono. E noi ci restiamo in mezzo, schiacciati.
Perché questa parola – limite – attraversa ogni nostra cellula. Come testimonia la sua fortuna nella nostra lingua, che l’ha declinata in modo specifico in tutte le discipline, dalle geografia alla matematica e alla chimica, dalla statistica all’economia e alla filosofia. Non c’è nulla di umano che possa pensarsi senza limiti.
Limite viene da limes e si riferisce a ciò che segna il confine tra appezzamenti di terra: i romani ponevano delle pietre per limitarli e le consideravano sacre. In Tacito limes è la frontiera, il baluardo da fortificare (per-munire). A questo utilizzo potrebbe risalire quella nostra percezione di resistenza quasi militare di ciò che è “limitante”.
In Plinio limes significa via, sentiero tra gli accampamenti. Può essere una strada sicura, come scrive Virgilio (lato te limite ducam, ti condurrò per una via libera dai nemici), e anche una via di fuga, come scrive Ovidio (limite recto fugere). Ma la più poetica delle accezioni è quella di Cicerone per il quale limes può essere ad caeli aditum, una strada per entrare in cielo.
Una delle figure che colleziona più citazioni intorno all’idea del limite è Ulisse. Che non solo per tutta l’Odissea affronta imprese impossibili perché una dea gli è così ostile da inventarsi una serie di prove-limiti per fermarlo. Ma quando alla fine sbarca alla tanto ambita Itaca, l’astuto si accomoda nel suo talamo e riposo, e si ritrova ancora affamato di novità. Così inquieto da rimettersi in mare e puntare verso un orizzonte inesplorato oltre il bordo del mondo noto.
Se sul suo volo folle mille interpretazioni sono già state proposte, c’è un dettaglio rimasto in ombra: le lacrime di Ulisse, che sgorgano generose e senza vergogna ogni volta che si trova in difficoltà o mentre ascolta raccontare la sua stessa storia. Lacrime che velano lo sguardo di un uomo che ha puntato il suo limite.
Limes ad caeli aditum
Un strada per entrare in cielo
Cicerone
I personaggi di Omero piangono quando l’ira li travolge, davanti al cadavere del compagno o per una donna o per la loro città. Sono eroi e piangono. Omero distilla proprio il nascere in loro del desiderio di piangere di fronte al limite. Lo riconoscono, e devono decidere che fare. Se osare domarlo e attraversarlo. O se optare per la resa, cioè accettarlo e basta.
Il bello è che non c’è una regola stabile, ogni volta ci tocca scegliere.
A volte viene ricompensato l’azzardo, la follia di spingersi oltre le Colonne d’Ercole, di non mantenersi dentro i confini sicuri delle terre note. Come quelle due famiglie che cucirono una mongolfiera, scampolo dopo scampolo, per volare oltre la cortina di ferro, rischiando la pelle per la libertà nella Berlino degli anni ‘70.
Ma altre volte invece vale di più mollare. Vince chi lascia andare, chi si arrende al disegno che la divinità ha tracciato, per tornare all’antica Grecia. Un arrendersi che non è una sconfitta, ma una semplice affermazione di umanità. Perfino di eroismo.
Ripescando Cicerone, quel limite percepito come un dispetto, come un nemico, potrebbe piuttosto, forse, segnare una strada per il cielo.
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