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Il Libano un anno dopo l’esplosione: un Paese in caduta libera

L’emergenza in Libano c’era già prima del 4 agosto 2020. «L’esplosione», racconta Marina Molino Lova, responsabile per Avsi dei progetti in Libano, «ha aggravato la situazione. Il Paese si sta quotidianamente degradando. Siamo in caduta libera e sull’orlo di una guerra civile. Mancano i beni primari, la sanità è al collasso, abbiamo l’energia solo poche ore al giorno»

di Anna Spena

Un anno fa si urlava all’emergenza in Libano. Lo scorso 4 agosto nel porto di Beirut esplodevano oltre duemila tonnellate di nitrato d’ammonio abbandonate nel porto senza nessuna misura di sicurezza. L’esplosione ha ucciso oltre 207 persone, ne ha ferite 7mila e ha lasciato circa 300.000 famiglie senza casa. Ma emergenza in Libano c’era già prima e l’emergenza in Libano c’è ancora oggi. Poco meno di 4 milioni di abitanti, un milione e mezzo di profughi siriani, mezzo milione di profughi palestinesi. L’emergenza c’era già prima perché nei mesi che hanno preceduto l’esplosione il Paese era caduto in una crisi economica senza precedenti, il debito pubblico era cresciuto così tanto fino a rendere il Libano il terzo paese al mondo per rapporto debito/pil (170%), obbligandolo a dichiarare la bancarotta nel marzo del 2020. Sembrava che peggio non potesse andare «invece», racconta Marina Molino Lova, responsabile per Avsi dei progetti in Libano, «il Paese si sta quotidianamente degradando, e i libanesi vengono umiliati, ogni giorno, un po’ di più. Il sentimento di tutti, il sentimento comune è quello di essere in caduta libera. È da un anno che non si prospettano soluzioni, vie d’uscita. Siamo davvero sull’orlo di una guerra civile. E questa non è un’ipotesi remota, ma la realtà in cui stiamo velocemente precipitando».

Nei giorni successivi all’esplosione una squadra di assistenti sociali di Avsi ha individuato i bisogni delle famiglie maggiormente colpite, anche alla luce di vulnerabilità pregresse, e una squadra tecnica di ingegneri ha effettuato la valutazione strutturale dei danni subiti dalle loro abitazioni. «Grazie al progetto #LoveBeirut a 40 giorni dall’esplosione che ha cambiato la vita della città, 18 abitazioni e 6 attività commerciali sono state ripristinate e in altri 50 cantieri si lavora ancora oggi per rispondere ai bisogni essenziali ed immediati delle famiglie più vulnerabili».

L’inflazione della lira libanese fa solo una cosa: aumenta, da mesi non conosce altri movimenti. I beni di prima necessità costano dieci volte di più. «Un litro di latte costava duemila lire libanesi, ora ne costa ventidue. Un chilo di carne costava 25mila lire libanesi, oggi ne costa quasi trecento. E domani?». Il tasso di disoccupazione nel Paese è del 40%, la stima è per difetto. Uno stipendio medio, in Libano, raggiunge un milione e mezzo di lire libanesi, meno di cento dollari al mese. Gli impiegati pubblici, i militari semplici, guadagnano anche meno di un milione. «Beirut era un po’ il centro di quello che restava dell’economia del Libano», continua Molino Lova, «ma dopo l’esplosione gli uffici sono andati distrutti, i negozi non hanno più riaperto».

Umiliare i cittadini libanesi significa questo: «vivere senza corrente. O meglio: prima dell’esplosione il governo garantiva 12 ore di energia al giorno, per le altre 12 c’erano i generatori. Ora il governo dà un’ora di energia al giorno. Per le altre 23 c’è il generatore». Ma chi se lo può permettere? La gente qui usa le candele perché il generatore costa dalle ottocentomila lire libanesi a un milione e sei. Vi ricordate? Lo stipendio medio, per i pochi che ancora lo percepiscono, è di un milione e mezzo. Umiliare le persone significa lasciare che i loro figli muoiano di fame. In un nuovo studio di Unicef emerge chiaramente come i più piccoli stiano sopportando il peso del collasso economico. Il 77% delle famiglie non può permettersi di comprare cibo per i propri figli e il 15% ne ha interrotto l’istruzione, 1 bambino su 10 è stato mandato a lavorare. Uno su tre va a letto senza cena o senza una cena dignitosa.

«L’esplosione», continua la responsabile di Avsi, «ha avuto un effetto devastante anche sul sistema sanitario. Il Libano all’inizio dello scorso agosto era in stato di lockdown. In quei giorni si è perso completamente il controllo sulla pandemia. Nei mesi successivi le terapie intensive degli ospedali si sono riempite». Ma di quali ospedali? Il più grande del Paese, il più importante si trovava a Beirut, anche quello è andato distrutto. «Il sistema sanitario è in ginocchio», racconta la responsabile di Avsi. «La crisi sociale ed economica ha creato una diaspora dei medici: 1500 medici specializzati hanno lasciato il Paese. Non mancano solo i medici qui, mancano le medicine di base, gli strumenti per fare le operazioni chirurgiche, quelli per le visite specialistiche. In ospedale entra solo chi può dimostrare che in banca ha abbastanza milioni di lire libanesi, una sorta di cauzione». Tripoli rimane la città più complessa: «è la culla della povertà estrema ed è una zona molto calda dal punto di vista politico». Chi ancora riesce è vivere in Libano sono le famiglia che vengono supportate dalla diaspora libanese, 15 milioni di persone che vivono all’estero e “mandano i soldi a casa”. Chi ancora riesce a sopravvivere è la classe molto benestante che ha fiutato i problemi e spostato i soldi all’esterno.

«Come Avsi stiamo lavorando a progetti agricoli per garantire che gli agricoltori libanesi non perdano la stagione produttiva e, con loro, i profughi siriani non perdano il lavoro come braccianti: abbiamo distribuito materiale, terriccio, vasi, piante, attrezzi, semi, e fatto corsi di formazione alle persone per poter iniziare un’attività agricola e creare un piccolo orto, così come formiamo le giovani donne a produrre per consumo familiare formaggi e yougurth, marmellate, pane e verdure sottaceto; coinvolgiamo le Municipalità con programmi di coltivazione comunitaria, a favore dei più poveri delle zone rurali del Nord e del Sud del Libano. Continuiamo, grazie al sostegno di Unicef ed Education Cannot Wait e al progetto Back to the Future con fondi dell’Unione Europea, a concentrarci sui minori che ormai, per le proteste prima e la pandemia dopo, non vanno a scuola dall’ottobre del 2019. Abbiamo adattato tutti i moduli educativi alla didattica a distanza, con un grande lavoro di supporto ai genitori, che sono coinvolti sempre più nell’educazione in remoto dei loro bambini. Produciamo e distribuiamo mascherine e continuiamo le attività per diffondere norme igienico-sanitarie che limitino la diffusione del contagio: sessioni di sensibilizzazione nei campi informali per i siriani, a favore della campagna vaccinale, con messaggi telefonici e sui social media per i beneficiari e gli insegnanti coinvolti nei progetti e la distribuzione di kit igienico-sanitari (saponi), kit alimentari e ricreativi nei campi informali siriani. L’unica soluzione per il Paese è una soluzione politica, sulla salute pubblica».

Ma il Governo in Libano non c’è, e quando c’è non riesce e legiferare a causa delle sue linee settarie, detto in parole semplici: musulmani sciiti, musulmani sunniti e cristiani maroniti non riescono a mettersi d’accordo. A rimanere uniti per il bene dei libanesi. Ad un anno dalle dimissioni del precedente Primo Ministro Hassan Diab, il presidente Michel Aoun, dopo diversi mesi di governo provvisorio e con poteri limitati, ha affidato all’uomo Najib Mikati l’incarico di formare un nuovo governo. Prima di lui l’incarico era stato affidato a Saad Hariri, che però aveva rinunciato».

Credit Photo Aldo Gianfrate per ong AVSI

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