Mondo
Il Libano al collasso
L’80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. La lira libanese si è svalutata del 90%. Poco meno di 4 milioni di abitanti, un milione e mezzo di profughi siriani, mezzo milione di profughi palestinesi. «È un Paese in caduta libera, ma il fondo del barile sembra non arrivare mai», raconta Maurizio Ranieri, country director per il Libano dell’organizzazione umanitaria WeWorld-GVC. «La situazione è davvero drammatica, per come la gente sta vivendo è un miracolo che non sia ancora scoppiata una guerra civile»
di Anna Spena
Il 4 agosto del 2020 al porto di Beirut esplodevano oltre duemila tonnellate di nitrato d’ammonio abbandonate senza nessuna misura di sicurezza. L’esplosione ha ucciso oltre 207 persone, ne ha ferite 7mila e ha lasciato circa 300mila famiglie senza casa. L’emergenza in Libano però non è iniziata poco più di un anno fa, ma molto prima. Nel 2019 con le prime proteste in piazza ha avuto l’attenzione dei media. L’emergenza sanitaria e l’esplosione al porto hanno peggiorato una situazione già drammatica. «La crisi economica, che è anche una crisi politica, è esplosa», racconta Maurizio Ranieri, country director per il Libano dell’organizzazione umanitaria WeWorld-GVC. «La valuta locale ha inizia a crollare, ma nessuno immaginava che avrebbe continuato a scendere».
Il Libano è un Paese che sta collassando, sotto tutti i punti di vista. «La sparatoria che giovedì (14 ottobre ndr) ha causato sette morti e decine di feriti nel centro di Beirut è una triste conferma di come il Libano resti bloccato in una crisi di cui non solo non si intravede nessuna via di uscita, ma neppure la volontà di cercarla. Tutta la scricchiolante ipocrisia del sistema politico libanese, la sua cronica corruzione, la sua cinica e totale indifferenza per le sofferenze della popolazione si è ripresentata nella sua indecente evidenza», ha scritto su La Stampa il professore Emanuele Parsi, direttore dell’Alta scuola di economia e relazioni internazionale (Aseri) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
La sparatoria a cui si riferisce Parsi è avvenuta durante una manifestazione dove le formazioni sciite Hezbollah e Amal si sono radunate fuori dal Palazzo di Giustizia, per protestare contro il giudice Tarek Bitar, titolare dell’inchiesta sulla devastante esplosione del 4 agosto 2020. Appena due settimane fa il Paese dei Cedri è rimasto completamente al buio, causa un blackout totale che ha privato i cittadini anche di quelle due ore di energia quotidiane passate dal Governo. Per chi può – ci sono i generatori. Ma chi può?
Il carburante è diventata oro: «Il fiuel manca, e il prezzo a cui oggi è disponibile sul mercato è elevatissimo. Questo rende critica la situazione anche negli ospedali che, tra l’altro, da ormai molti mesi fanno grandissima fatica a reperire i medicinali. Anche quelli di base».
«Ho vissuto in Libano per diversi anni prima dell’assassinio nel 2005 Rafiq al-Hariri, ex primo ministro libanese, ucciso, insieme ad altre 21 persone, mentre la sua auto passava davanti all’Hotel St. George», continua Ranieri. «Era un Paese con parecchie energie, prosperoso. Sono ritornato lo scorso anno e l’ho trovato in caduta libera, ma il fondo del barile sembra non arrivare mai. La situazione è davvero drammatica, per come la gente sta vivendo è un miracolo che non sia ancora scoppiata una guerra civile». Lo Stato di fatto è in bancarotta, ma gli aiuti internazionali, promessi dopo l’esplosione del porto, sono bloccati perchè il Governo non è in grado di promuovere le riforme a cui gli aiuti sono vincolati.
Per dare un’idea semplice di come adesso si viva in Libano, basta guardare all’inflazione dei prezzi. Con diecimila libre libanesi nel 2019 «compravi un chilo di pomodori, un litro di latte, un chilo di riso, un chilo di arance», spiega Ranieri. «Nel 2020 con lo stesso valore solo arance, pomodori, e latte. Nel 2021 si può compare solo un chilo di pomodori. Qui il 70% delle ricchezze del Paese è in mano al 10% della popolazione».
Uno stipendio medio basso in Libano, di un lavoratore non specializzato, al cambio ufficiale tra lira libanese e il dollaro americano, corrispondeva circa a 17mila dollari all’anno. «Questi soldi consentivano un buon livello di vita. Lo stipendio di un militare, per esempio, era di circa 1200 dollari al mese, oggi invece è di 80. La popolazione qui vive principalmente con le rimesse della diaspora. Rimesse che con l’emergenza sanitaria mondiale sono state in parte interrotte o comunque sono diminuite».
WeWorld – GVC in Libano ha un ufficio di coordinamento a Beirut, e lavora al nord del Paese, nell’Akkar e nella valle della Beeka. «La Valle della Bekaa», spiega Ranieri, «è l’area che ospita il maggior numero di rifugiati, stanziati principalmente in campi di Insediamento Informali, dove l’accesso ai servizi di base è molto carente e i livelli di sicurezza e protezione per le famiglie sono molto scarsi. La condizione dei rifugiati, che era già critica prima dell’esplosione al porto, adesso è difficilissima, sono gli ultimi tra gli ultimi. Qui proviamo ad assistere le persone attravreso un intervento multisettoriale partendo dai servizi igienico-sanitari. Sul fronte dell’approvvigionamento idrico (programma WASH), i nostri progetti nella Valle della Bekaa e ad Akkar promuovono la gestione efficiente delle risorse idriche e una diminuzione dei costi di mantenimento del settore, per garantire il miglioramento del servizio e la sostenibilità dell’approvvigionamento idrico. Ci occupiamo della distribuzione di pacchi alimentari, sia per i rifugiati siriani che per i cittadini libanesi nelle municipalità dove siamo presenti e abbiamo avviato nella municipalità di Hermel un fondo per la contrattazione di personale extra non qualificato per il potenziamento di alcuni servizi municipali di ordinaria e straordinaria manutenzione, nonché la fornitura di piccole attrezzature e materiali. L’attività coinvolge 300 beneficiari diretti che ricevono assistenza tramite il meccanismo del trasferimento di denaro in cambio di prestazione di servizio».
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