Anniversari
Il lavoro sociale? Non può essere il nuovo sottoproletariato
Quest'anno ricorrono i vent'anni dell'unione di consorzi di imprese e cooperative sociali Idee in rete, che festeggia questo importante anniversario con una due giorni di riflessioni sul mondo in cui opera; secondo il presidente, Marco Gargiulo, serve concentrarsi sui diritti dei lavoratori e sui bisogni dei territori, mantenendo un occhio sul profit ma senza perdere di vista i propri valori fondanti
Vent’anni a fianco delle cooperative e delle imprese sociali, per costruire un sistema di rete in grado di supportare gli enti nel loro percorso impegno a favore di un welfare generativo, a favore dei territori e delle comunità. È un compleanno importante quello che Idee in rete festeggia il 5 e il 6 ottobre, con una due giorni di laboratorio partecipato a Bologna, aperto a tutti, dal titolo «Idee in testa idee in festa». La rete si è costituita nel 2003, come unione di otto consorzi di cooperative sociali; oggi annovera 19 soci operanti su tutto il territorio italiano, prevalentemente consorzi di secondo livello rappresentando un ecosistema di oltre 180 imprese sociali; oltre 10.000 soci, compresi i lavoratori, tra i quali sono presenti oltre 1.600 definiti dalla norma «svantaggiati». Quella di Idee in rete è una lunga storia, una preziosa testimonianza dell’evoluzione del contesto di lavoro dell’imprenditoria sociale, vista con gli occhi di chi rappresenta questo mondo. Abbiamo parlato del presente, del passato e del futuro della cooperazione sociale assieme al presidente del consorzio, Marco Gargiulo.
Presidente, com’era la situazione della cooperazione sociale vent’anni fa?
Idee in rete nasce nel 2003, ma in realtà la spinta a mettere insieme delle reti territoriali comincia qualche anno prima; si trattava di un’epoca in cui eravamo in pieno sviluppo della Legge 381 (sulla disciplina delle cooperative sociali, ndr). Molte realtà della cooperazione sociale avevano iniziato a sviluppare sui territori forme organizzative a livello di consorzi di secondo livello, soprattutto provinciali e regionali, per rispondere ad alcune sfide che attendevano le organizzazioni e che le piccole realtà non erano in grado di reggere. C’erano, per esempio, cooperative che non riuscivano a strutturare al proprio interno degli uffici amministrativi per le buste paga o degli uffici progetti; un’altra difficoltà poteva essere quella di sostenere alcune sfide del mercato. I consorzi, poi, hanno cominciato a confluire in reti nazionali, per la necessità di mettere insieme un sistema valoriale, ma anche culturale e formativo. Sorgeva il bisogno di formare una classe dirigente di cooperatori sociali che fosse in qualche modo accomunata da alcuni valori, ma anche da metodi e competenze comuni. Le grandi reti nascono anche nella logica di rappresentare la dimensione imprenditoriale in vari contesti, all’esterno – con le istituzioni, per esempio – ma anche all’interno del mondo della cooperazione.
Poi le cose sono cambiate?
Molte cooperative sociali sono cresciute, hanno iniziato a strutturarsi. Tante di queste hanno addirittura fatto sì che i consorzi di cui facevano parte venissero assorbiti nelle loro funzioni e quindi scomparissero o diventassero a loro volta cooperative. La trasformazione che sta avvenendo è epocale per due motivi. Innanzitutto il mondo dell’economia sociale e delle cooperative sociali non risponde più soltanto a un bisogno in qualche modo quantificato, certificato e quindi rendicontabile con servizi alla persona o con attività di inserimento lavorativo, ma ha iniziato negli anni a rivolgersi alla comunità e ai territori intesi in senso lato; ha cominciato cioè a emergere una dimensione importante, tra l’altro già presente nella Legge 381, proprio nell’articolo 1, dove si dice che lo scopo delle cooperative sociali è quello di rivolgersi a alle comunità, rispondendo ai loro bisogno, che non sono necessariamente iscritti in livelli essenziali. Nel frattempo anche la capacità di investimento dell’Ente pubblico è cambiata, per certi versi si è ridimensionata. In tutto questo, il consorzio si è organizzato; oggi in Europa abbiamo un Action plan for the social economy che rappresenta il segno di una nuova visione, nel solco di uno sviluppo economico che deve essere più sostenibile, ma anche di una riscoperta della missione sociale che deve avere un’impresa per fare economia. Su questo si gioca una grande sfida per noi e per le cooperative in generale: non rincorrere soltanto il mondo del profit, che deve rappresentare un punto di vista soprattutto funzionale.
In che senso?
Che dobbiamo imparare dal profit alcune cose, come la capacità organizzativa, la capacità di fare impresa e di sviluppare competenze. Ma non dobbiamo dimenticare i valori, che sono gli stessi che sono alla base del concetto di social economy: la lotta alle disuguaglianze, l’inclusione, il lavoro. Il supporto ai minori, ma anche a tutte le persone che sono escluse e che ora tendono a esserlo sempre di più. È chiaro che, in questo, l’economia sociale è immersa nei territori, è ricca di prossimità.
Non possiamo accettare supinamente che il lavoro sociale diventi il nuovo sottoproletariato
Marco Gargiulo
Quali sono le criticità che lei ravvisa in questo momento nell’imprenditoria sociale?
Sono quelle che abbiamo identificato nei workshop che abbiamo promosso proprio per il pomeriggio del 5 ottobre. La prima è la necessità di porre nuovamente al centro chi lavora nel mondo dell’economia sociale. La dimensione lavorativa deve essere una dimensione di realizzazione della persona, oltre che della realizzazione di un desiderio di incidere a livello sociale, civico e politico all’interno di un dato contesto. Molti dicono che oggi c’è il problema della mancanza di reperimento di nuove «vocazioni», sembra che il lavoro sociale – in particolare quello di cura – sia diventato sempre meno attrattivo. Questo è determinato da fattori culturali, ma anche economici. Quest’ultimo aspetto non va sottovalutato, non possiamo non affrontarlo. Per molti soci lavoratori delle cooperative diventa paradossale operare per delle persone che vivono in situazioni di disagio e di disuguaglianza e allo stesso tempo ritrovarsi in una condizione di difficoltà a gestire il proprio management familiare e la propria organizzazione di vita. Non possiamo accettare supinamente che il lavoro sociale diventi il nuovo sottoproletariato. Questo è un tema cruciale, perché la soddisfazione lavorativa passa anche – non lo possiamo negare – dalla soddisfazione retributiva.
E cosa si può fare, nel concreto?
Oggi abbiamo una grande sfida, che è il rinnovo del contratto collettivo nazionale dei lavoratori delle cooperative sociali. Un contratto che è scaduto da tanto tempo: dobbiamo ottenere il rinnovo entro la fine di quest’anno perché dobbiamo offrire risposte chiave e non più ambigue ai nostri soci lavoratori. Noi vogliamo lottare con loro e magari possiamo farlo in sinergia col sindacato, in modo che il loro impegno sia riconosciuto dal punto di vista economico. È un lavoro che ha una grande capacità di agire sui territori per rispondere a bisogni concreti, ha una sua valenza sociale, politica ed economica. Un’altra criticità che abbiamo è la necessità di sviluppare nuove competenze.
Cioè?
Veniamo da un periodo in cui le cooperative sociali hanno sviluppato al proprio interno competenze molto verticalizzate su determinati settori, come quello degli anziani, dei minori, dell’abitare, eccetera. Oggi questa capacità di organizzare le competenze in filiera non è più l’unica: bisogna svilupparne di trasversali, andando a pescarle da altri mondi. Aprirsi a un modello di open innovation, dove l’impresa sociale possa stringere sinergie con realtà con cui finora ha fatto fatica a dialogare. Senza perdere i nostri valori, che sono legati alla centralità della comunità e della persona umana.
Siamo ancora in una fase di profondo dubbio, in cui ci interroghiamo sul senso di intervenire e agire, per esempio, sui servizi di trattenimento dei migranti. Non è questo il nostro compito: il nostro impegno è favorire processi di inclusione, non di esclusione.
A proposito di valori, come controllate che i soci della rete siano virtuosi e li rispettino?
Abbiamo delle linee guida, dei vademecum, come le carte dei valori, attraverso le quali abbiamo sempre cercato di favorire da parte dei nostri soci un modo corretto di interpretare la propria vocazione imprenditoriale. Va detto che, su questo, molto è stato fatto anche a livello di Confcooperative. Sicuramente, uno degli elementi che per noi sono principali è la corretta applicazione del contratto collettivo, cosa che non avviene in tutte le cooperative d’Italia. Abbiamo anche fatto tutto un lavoro sul tema delle migrazioni, qualche tempo fa, su quanto era importante fare attenzione a non diventare dei soggetti che andassero a mettere in piedi servizi e azioni che magari avevano un qualche tipo di sostegno lavorativo, ma che sviliscono la dignità delle persone immigrate. Siamo ancora in una fase di profondo dubbio, in cui ci interroghiamo sul senso di intervenire e agire, per esempio, sui servizi di trattenimento dei migranti. Non è questo il nostro compito: il nostro impegno è favorire processi di inclusione, non di esclusione.
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