La notizia di oggi è che Amazon aprirà due “poli di servizio” in altrettante carceri italiane (Torino e Roma-Rebibbia) con l’impiego di alcuni detenuti come magazzinieri e addetti alla logistica. A dire il vero, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha subito smentito l’annuncio fatto dal direttore dell’istituto piemontese, ma forse solo per la sua intempestività, dato che la firma dell’accordo è (o era) prevista per il 30 maggio.
Al momento non è dunque dato di conoscere il trattamento contrattuale ed economico cui saranno sottoposti i dipendenti reclusi. Ma, se tanto ci dà tanto, è facile presumere che non sarà invidiabile, date le pesanti condizioni lavorative e salariali, spesso denunciate, cui sono soggette le maestranze esterne della multinazionale della gig economy, il cui proprietario, Jeff Bezos, viceversa (o magari proprio in ragione di quelle) è rapidamente divenuto uno degli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio personale stimato attorno ai 150 miliardi di dollari.
Sugli stessi argomenti, la notizia invece divenuta pressoché quotidiana da qualche tempo a questa parte è la stipula di protocolli d’intesa, oppure la loro implementazione, tra istituti penitenziari, enti pubblici o imprese private che prevedono l’impiego di manodopera gratuita da parte di detenuti ammessi a tale “beneficio”.
Il prezzo del riscatto
La più recente (del 22 maggio) riguarda l’intesa sottoscritta dalla direzione della Casa circondariale di Benevento e dal Consorzio ASI (Area di Sviluppo Industriale). Prevede l’invio al lavoro all’esterno di due reclusi – di origina somala, viene precisato – in attività di manutenzione. «Le due unità selezionate dalla struttura penitenziaria presteranno la propria attività a titolo volontario e gratuito per un anno», ha chiarito il presidente del Consorzio al quale, bontà sua, toccherà l’onere assicurativo e antinfortunistico. Secondo il manager, «ci vuole anche un po’ di coraggio ad intraprendere percorsi insolitamente battuti, ma quando la politica è illuminata dalla volontà di operare nell’interesse della cosa pubblica […], le buone prassi si traducono in concrete opportunità per la collettività».
Non sappiamo se per fruire di lavoro non retribuito sia necessario disporre di un particolare ardimento, ma tanto insoliti questi percorsi per la verità non sono. Anzi. Non passa quasi giorno senza che qualche amministrazione comunale o penitenziaria annunci l’inizio di analoghi «coraggiosi» progetti, che impiegano ormai diverse centinaia di carcerati, anche al di fuori delle norme e limiti previsti dal lavoro di pubblica utilità quale sanzione penale sostitutiva.
Enumeriamone qui solo quelli degli ultimi giorni:
– Pescara (20 maggio). Firmata una convenzione per la digitalizzazione dei documenti del locale tribunale da parte di detenuti minorenni abruzzesi e di altri giovani reclusi non retribuiti; sottoscrivono: Centro per la Giustizia Minorile per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise, Associazione di volontariato Voci di Dentro, Tribunale, Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna, Ufficio di Sorveglianza, direzione della Casa Circondariale.
– Genova (17 maggio). Anche la Giunta del capoluogo ligure ha approvato uno schema di accordo-quadro con l’amministrazione penitenziaria per l’utilizzo di detenuti in progetti di pubblica utilità a titolo di «lavoro volontario e gratuito». Tra i sottoscrittori anche Autostrade per l’Italia. Il progetto «risponde alla duplice finalità del reinserimento e della trasmissione alla comunità di un messaggio di legalità e rispetto di norme e regole». Evidentemente, tranne quelle che sanciscono (o sancivano) il diritto alla retribuzione del lavoratore, sinora anche di quello detenuto.
– Siena (13 maggio). Analogo il progetto cui ha aderito il Comune di Siena per l’utilizzo del lavoro, sempre “volontario” e non retribuito, di detenuti nella manutenzione di spazi pubblici e di aree verdi della città e in interventi connessi alla raccolta dei rifiuti e alla protezione civile
L’iniziativa di Genova e Siena si inserisce nel programma ministeriale già in corso in molti luoghi, tra cui Roma, Milano, Napoli, Torino, Pescara, Palermo, Ragusa, Parma, Viterbo, Livorno, Firenze, Gela e Niscemi, che ha un titolo programmatico ed eloquente (e ambivalente): «Mi riscatto per…», seguito di volta in volta dal nome della città che aderisce alla “coraggiosa” scelta di impiegare senza compenso manodopera reclusa. Capofila e precursore è stata la città di Roma, che nell’agosto 2018 ha visto le firme sul primo progetto del sindaco Virginia Raggi, del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal Capo dell’amministrazione Francesco Basentini.
Un programma che è stato presto orgogliosamente indicato come “modello”, tanto da venire mutuato persino dal Messico.
Incarcerare arricchisce
Il XV Rapporto di Antigone appena pubblicato ci mostra, dati alla mano, che mentre e pur se decresce il numero dei delitti aumenta quello dei detenuti.
È un processo analogo a quello in atto negli Stati Uniti dai primi anni Novanta del secolo scorso. Più o meno nello stesso periodo era cominciata l’epoca dell’incarceramento di massa, che ancora continua e che ha reso quel Paese il primo al mondo per numero di reclusi: erano circa un milione nel 1990, sono ora diventati più del doppio, cui andrebbero sommati altri 5 milioni di persone sottoposte a libertà sulla parola o a misure penali all’esterno. Anche in Italia siamo passati dai 31.053 detenuti del giugno 1991 ai 60.439 dell’aprile 2019, oltre ai 58.269 in esecuzione penale esterna.
Gli Stati Uniti hanno il 5% della popolazione mondiale ma il 25% di quella carceraria. Alla base dell’ipertrofia vi è quella “war on drugs” inaugurata da Ronald Reagan (e presto importata in Italia da Bettino Craxi), che ha riempito le celle soprattutto di afroamericani e di poveracci, ma pure il sistema delle carceri private: anche quello, come ogni business, tende naturalmente a incrementare sé stesso. E ad ampliarsi: appunto nello sfruttamento della manodopera reclusa e, da ultimo, nelle strutture di trattenimento dei migranti. Oltre la metà del budget federale complessivo destinato al sistema detentivo finisce alle compagnie private, le quali tra la gestione diretta di circa 130 prigioni e la fornitura di servizi, quali ad esempio l’assistenza medico-sanitaria e le mense, intascano più di 40 miliardi di dollari l’anno. Una montagna di denaro che consente alle compagnie più grandi, quotate in borsa, di fare lobbying e di finanziare le campagne elettorali presidenziali, com’è avvenuto da ultimo con quella di Trump, in tal modo influenzando le scelte politiche e legislative a proprio favore.
Il modello seguito in Italia, insomma, è quello statunitense, ma per quanto riguarda lo sfruttamento del lavoro da noi si è riusciti a far persino peggio introducendo il lavoro “volontario e non retribuito”. Nelle prigioni USA gestite privatamente il detenuto che lavora nei laboratori interni riceve mediamente 17 centesimi all’ora per un massimo di sei ore al giorno, circa 20 dollari al mese; in pochi casi e carceri, e per mansioni molto qualificate, arriva a percepire una retribuzione oraria massima di 50 centesimi. Insomma, paghe letteralmente da fame; appena un po’ meno nelle prigioni federali, dove è possibile guadagnare 1,25 dollari all’ora per otto ore giornaliere.
Il lavoro all’esterno vede compensi simili e, in alcuni Stati, un utilizzo crescente di reclusi. Specie in mansioni pericolose, come ad esempio in California, dove in caso di incendio la sicurezza pubblica è affidata al lavoro di migliaia di carcerati, pagati un dollaro l’ora se addetti alla linea del fuoco e due dollari per un’intera giornata se impiegati nelle retrovie.
Le galere fruttuose
Il lavoro gratuito è dunque divenuto l’ultimo gradino nell’infinita scala dello sfruttamento, in un mercato del lavoro che vede ormai il precariato (magari a vita) come architrave indiscussa. Questa è la manifesta tendenza in Italia, ma non solo, dove ha avuto un momento di sperimentazione massiccia nell’Expo di Milano nel 2015, con la messa al lavoro di diverse migliaia di giovani, chiamati al volontariato a beneficio di un ente a fine di lucro, sponsorizzato da organizzazioni non certo filantropiche come le multinazionali McDonald’s o Coca Cola.
In attesa di dispiegarsi completamente, quel “modello” si sta applicando con metodo e soprattutto con profitto sugli anelli sociali più deboli e ricattabili: detenuti ma anche richiedenti asilo.
Nulla di nuovo, sicuramente. Basti leggere una decretazione del Senato veneziano del 29 settembre 1569: «È benissimo conosciuto da questo Consiglio l’utile e il beneficio che riceve la Serenità nostra dalle galere dei condannati ritrovandosi, massimamente al presente, le prigioni di questa città piene di essi condannati con pericoloso di infermarsi… e sopraggiungendone ogni giorno degli altri… sarà bene non lasciare infruttuosi nelle prigioni detti uomini». Ora come allora, il prigioniero viene messo al lavoro naturalmente per il suo bene e la sua emenda, per aiutarlo a vincere l’ozio e a riparare il proprio torto.
A differenza dei tempi della Serenissima Repubblica, ora vi sono però numerosi Garanti dei diritti dei detenuti territorialmente distribuiti e diverse organizzazioni sindacali. Rimane la curiosità di sapere se e cosa ne pensino di tale fenomeno.
Fenomeno diffuso e incontrastata tendenza che, oltretutto, rischiano di strumentalizzare e svilire la nobile esperienza e categoria del volontariato, vale a dire della libera (quella sì!) scelta di utilizzare parte del proprio tempo e competenze a beneficio della collettività e in specie dei più bisognosi. Tra i quali dovrebbero rientrare proprio e anche i carcerati. Cui invece, oltre alla libertà, si arrivano così a togliere la dignità e le prerogative del lavoratore.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.