Disabilità
Vi racconto il mio lavoro invisibile da madre caregiver
Melissa, sei anni, vive con una gravissima disabilità. Sua madre, Elisa Mazzone, racconta le difficoltà quotidiane. «Mi chiedono spesso: “ma tu non lavori vero”? E io vorrei urlare “certo che lavoro, faccio la caregiver! Da sei anni, 24 ore su 24”. Ma a nessuno importa. Sono invisibile». Poi aggiunge: «mi sale la rabbia perché lo Stato non riconosce il nostro lavoro impostoci dal destino e, pur sfruttando a pieno la nostra vita, non ci riconosce uno stipendio»
Melissa è una bimba di sei anni che vive in provincia di Avellino, ha una gemella che si chiama Laura e un fratello di due anni più grande che si chiama Tommaso. Melissa ha anche una gravissima disabilità. “Gravissima” non è un aggettivo scelto per dare enfasi. Indica una tipologia di invalidità severa, così come è stata incasellata da l’Inps, Asl, sistemi sanitari, tabelle e tariffari. Melissa non controlla bene i movimenti, né le funzioni fisiologiche, ha la necessità di un accesso allo stomaco per l’alimentazione. La sua mamma, Elisa Mazzone, è la persona che si prende cura di lei giorno e notte. È la sua caregiver principale, si direbbe. Ed è molto arrabbiata. Non solo per le difficoltà che Melissa affronta ogni giorno per portare a termine dei compiti semplici, ma perché ogni giorno lei, madre, donna di 39 anni, plurilaureata, si sente sola, terribilmente sola, poco compresa, poco sostenuta, poco supportata dalla società in cui vive.
«Mi chiedono spesso: “ma tu non lavori vero”? E io vorrei urlare “certo che lavoro, faccio la caregiver! Da sei anni, 24 ore su 24”. Ma a nessuno importa. Sono invisibile».
Elisa, iniziamo dalla nascita. Ci racconta?
Quando è nata, di parto naturale, sei anni fa, Melissa sembrava godere di ottima salute: era splendida, a differenza della gemella Laura che era violacea. Ma una trombosi generale ha cambiato per sempre il suo destino. Nei primi quattro mesi si è ritrovata più volte in fin di vita, ha subito 17 trasfusioni e addirittura una exsanguinotrasfusione, una procedura che viene eseguita in casi estremi, quando è necessario rimuovere e sostituire tutto il sangue presente nel corpo.
Che impatto ha avuto?
Melissa ne esce acciaccata, ma viva. Pensavamo di aver vinto la grande guerra, invece era solo la prima di tante battaglie. La sua disabilità si è svelata subito con ferocia, dentro un corpo che non le risponde. Melissa non parla, non controlla bene i movimenti, né le funzioni fisiologiche come cacca e pipì, non mangia, non beve: ha la necessità di un accesso allo stomaco per l’alimentazione. Ha perso l’udito e un rene. Per tre anni ha vomitato più di venti volte al giorno, immancabilmente tutti i giorni…
Come ricorda quei momenti?
Essendo una donna molto forte e positiva, cercavo sempre di valutare gli ostacoli singolarmente e studiavo il modo per superarli, non guardando mai la situazione nel suo complesso e non facendomi mai domande sul futuro. Ma ad ogni terribile notizia (come la sua sordità, l’incapacità di prendere un oggetto, la perdita di un rene) un po’ del mio ottimismo crollava. Per andare avanti a volte pensavo solo a respirare e mangiavo molto finché un giorno, dopo l’ennesima notte in bianco e l’impossibilità di dormire perché nessuno riusciva a sostituirmi, ho desiderato di non essere mai nata. Ma, per non appesantire ancor più mio marito, ho allontanato da me questo desiderio. Lo dico con una certa serenità perché penso che la maggior parte dei caregiver prima o poi tocca il fondo… Ci sono voluti molti mesi per eliminarlo dalla mia mente e soprattutto la fortuna di trovare dei medici che mi hanno assicurato la loro presenza e attenzione per Melissa: grazie a loro mi sono sentita meno sola ed è tornato il coraggio di perseverare nell’andare avanti.
E lei come ha reagito?
Io ho quattro titoli di studio, tra cui una laurea in farmacia. Mi sono rimboccata le maniche, mi sono licenziata e ho messo le mie capacità e il mio tempo al suo servizio. Ho cercato e individuato per lei i centri più specializzati e i medici più competenti. Ho attraversato tutta l’Italia. Purtroppo ogni medico vedeva solo il suo pezzettino e io mi sono ritrovata mio malgrado a dover fare il direttore d’orchestra. Un ruolo che avrei ceduto volentieri a qualcun altro, limitandomi a fare la mamma ed evitando che la piccola a tratti avesse timore di me perché mi associa a medici e infermieri.
Ho quattro titoli di studio, tra cui una laurea in farmacia. Ho messo le mie capacità e il mio tempo al suo servizio. Un ruolo che avrei ceduto volentieri a qualcun altro, limitandomi a fare la mamma
Elisa Mazzone
Cosa significa nel concreto?
In breve tempo ho capito che i passi avanti di un disabile si ottengono solo lavorando in team: a cosa serve la terapia riabilitativa se il bambino si stanca e sta male? A cosa serve placare il vomito con farmaci che danneggiano la risposta cerebrale? O impostare una comunicazione che a scuola non viene poi utilizzata? Anche i più grandi centri ospedalieri spesso non riescono a lavorare veramente in team perché troppo spesso ognuno rimane nel suo reparto ritenendo fuori dal suo compito interfacciarsi con colleghi di altri settori. E allora il gastroenterologo prescrive farmaci senza l’approvazione del neurologo, il fisiatra imposta una riabilitazione senza la cooperazione del neurologo, si richiedono gli stessi esami strumentali da reparti diversi. Alla lunga la maggior parte delle famiglie si demoralizza e… si arrende!
Ci può raccontare una sua giornata?
Comincerei con un “mi sveglio alle…” ma una caregiver difficilmente ha questo privilegio. La notte dormo in media 3 ore. In determinate notti vomita oltre le 15 volte e bisogna vigilare attivamente per non farla affogare.
Le primissime ore del mattino passano tra vomito, medicine, sistemazione dell’accesso allo stomaco e cambio pannolino. Poi si va a scuola e spesso resto con lei per sistemarla sui vari ausili o per confrontarmi con la maestra di sostegno e la logopedista. Uscita da scuola, resto nei paraggi perché potrebbero chiamarmi perché ha vomitato o va cambiato il pannolino o piange o deve bere. Rientro a scuola dalle 3 alle 5 volte al giorno. Mi allontano solo se necessario e se c’è qualche parente che mi sostuisce. All’uscita di scuola si va a casa dove i terapisti lavoreranno con Melissa fino alle 20.30. Anche in questo caso difficilmente mi allontano.
Uscita da scuola, resto nei paraggi perché potrebbero chiamarmi perché ha vomitato o va cambiato il pannolino o piange o deve bere. Rientro a scuola dalle 3 alle 5 volte al giorno
Elisa Mazzone
Quali sono i suoi compiti?
Durante queste ore somministro medicine, acqua, cibo, faccio l’aspirazione, la PEP Mask, metto in comunicazione i terapisti con le maestre o con i medici, organizzo visite, viaggi in ospedale e studio… tantissimo per cercare medici sempre più specializzati e strade non ancora percorse. Ovviamente, se posso nel mio piccolo, faccio lo stesso anche per altri bambini! La cooperazione tra mamme è alla base di ogni genere di evoluzione! Cerco a volte di dedicarmi anche ad altro, agli altri figli e a supportare mio marito nel suo lavoro ma mi rendo conto che il mio tempo personale è limitato e sto sempre attenta a non desiderarne di più per non rischiare di cadere in depressione.
Ci ha raccontato che la fa molto arrabbiare quando le domandano “ma tu non lavori, vero”? Ci spiega?
Si, è vero, la rabbia è tanta! Sono 6 anni che non ho un sonno ristoratore perché con un orecchio devo sempre ascoltare mia figlia, come chi fa il turno di notte, 6 anni che non ho un attimo di spensieratezza come un grande imprenditore, 6 anni… senza mai un giorno “senza far niente” eppure cosa posso rispondere a chi non vive la mia giornata? Lavoro io? No! Ufficialmente io non lavoro! Ciò significa che, in teoria, io avrei tempo libero… Proprio io che la libertà non ho più il tempo neppure di sognarla a occhi chiusi! E allora mi chiedo perché quando mia figlia vomita, medici e infermieri in ospedale vengono pagati per assisterla e io no? Ognuno di loro dopo 8 ore torna a casa, io no! Perché loro hanno diritto a uno stipendio e io no? Loro potrebbero addirittura cambiare lavoro, io no! Perché l’infermiere che viene a casa solo 2 volte a settimana viene pagato e io che faccio le stesse cose i restanti 5 giorni non ho diritto a nulla? Lui non si assume le responsabilità di dare dei farmaci salvavita eppure lui è reputato un lavoratore mentre io no! In alcune Regioni, come per fortuna la mia, mandano ai caregiver un OSS per aiutarci 10 ore alla settimana oppure ci danno un contributo economico per pagarne uno.
Cosa la ferisce di più?
Io, anche solo per il piacere di rispondere a quella domanda “Si, lavoro!” vorrei avere il diritto di cambiare lavoro! Ma potrei mai abbandonare mia figlia? No! E allora, non potendo in alcun modo scindere la mia vita personale da quella lavorativa, mi sale la rabbia perché lo Stato non riconosce il nostro lavoro impostoci dal destino e, pur sfruttando a pieno la nostra vita messa a totale disposizione dei nostri cari, non ci riconosce uno stipendio. Eppure questi disabili, posti in ospedali o case di cura, costerebbero molto molto di più che un singolo stipendio!
Mi sale la rabbia perché lo Stato non riconosce il nostro lavoro impostoci dal destino e, pur sfruttando a pieno la nostra vita messa a totale disposizione dei nostri cari, non ci riconosce uno stipendio
Elisa Mazzone
Quali soluzione vorrebbe suggerire a chi sta mettendo a punto la norma?
Immagino si riferisca al nuovo Piano della Non Autosufficienza il quale parla di retribuzioni e inquadramenti di assistenti familiari, volontari, educatori, assistenti sociali, e tutte le altre figure accomunate da un unico obiettivo: supportare il caregiver.
Con rispetto parlando, ma si può veramente mai pensare allo stipendio dell’Oss che aiuta il caregiver prima ancora di dare uno stipendio e una dignità al caregiver stesso? Mi spighereste come si può mai accettare di buon grado questo Piano senza sentirlo come mortificante per i veri e primi attori di questa realtà? Sono sinceramente rammaricata, delusa e senza parole. Questa ennesima mancanza di inquadramento del caregiver nel nuovo Piano è per me, oltre a un danno, la beffa per tutti i “sì” che ho detto allo Stato per mia figlia! A tutte le mie rinunce a una vita “normale” e a tutti i miei progetti lavorativi! A tutte le responsabilità di cui mi sono caricata… Per non parlare di quanto mi senta sminuita quando assimilano la mia vita, madre di una bambina disabile, a quella di un caregiver di anziani!
Può spiegarci meglio?
Mediamente la madre di un bambino disabile:
– è giovane! Quindi, non potendo lavorare, è destinata a non avere neppure la pensione sociale!!!
– la sua condizione di caregiver non si modificherà nel lungo periodo perché l’aspettativa di vita del bambino non è breve!
– assiste un malato non-degenerativo, quindi deve lavorare energicamente e studiare assiduamente per farlo migliorare;
– il suo ruolo non è semplicemente quello di aprire la porta agli operatori e ascoltare le direttive di un medico, ma fa di routine lunghi ricoveri, i day hospital sono molto frequenti, viaggia tra più strutture poste in diverse Regioni (se non continenti), quasi sempre somministra farmaci off label e deve fare altissimo monitoraggio; è l’unica reale figura in grado di coordinare tutti i professionisti coinvolti nella gestione dell’esistenza del bambino.
Fino a quando dovremo sentirci chiamare “eroine”, ma dovremo continuare ad accettare di non avere la dignità di dire “Sì! Ho un lavoro: io sono e faccio la caregiver”?
Cosa spera?
Spero dal profondo del cuore che presto lo Stato e le singole Regioni riconoscano ufficialmente il nostro ruolo e diano un prosieguo all’articolo 1, comma 255 della Legge 27 dicembre 2017, n. 205 in cui si stabilisce chi è un caregiver ma non si stabilisce una retribuzione con relativi contributi.
Il destino e lo Stato impongono a una giovane madre di lasciare inevitabilmente i propri progetti per prendersi cura di suo figlio, affiancando e coordinando medici, infermieri, operatori sanitari, limitando il più possibile dispendiosi ricoveri ospedalieri. Queste madri non hanno il diritto di lavorare per nessun altro se non per i propri figli! Perché questi bambini necessitano quotidianamente, 24 ore su 24, della propria mamma che, senza chiedersi quale mansioni le competano oppure no, li aiutino finanche a defecare (manualmente), non guardi mai l’orologio, vada a sostituire ogni figura sempre, studi incessantemente facendosi affiancare da medici sempre più specializzati e soprattutto tenga saldo l’intero team socio-sanitario. Penso sia il minimo riconoscere e retribuire il ruolo del caregiver almeno soltanto come un “grazie” da parte dello Stato per fargli risparmiare su tante figure e tanti ricoveri e per aver accettato questo lavoro a 24 ore anche se non desiderato.
Oggi Melissa ha sei anni e a settembre andrà alla scuola primaria, insieme alla gemella. È profondamente sorda, ma sente grazie agli impianti cocleari. Come si immagina quel momento?
Come già detto, in queste situazioni farsi delle domande non è sempre producente. Le ansie sono molte perché il percorso di Melissa è fin troppo soggetto a elementi esterni. Basti pensare all’insegnante: se a Laura, la gemella, capiterà un insegnante poco empatico, potremo integrare ad esempio con un doposcuola; se la maestra di sostegno di Melissa invece non avrà la giusta sensibilità e un minimo di competenze, difficilmente potremo rimediare perché Melissa a scuola dovrà imparare a utilizzare un comunicatore, uno strumento molto complesso che nel tempo dovrebbe portarla a “parlare”, leggere, scrivere… Perché Melissa a livello cognitivo è integra ma il suo corpo la imprigiona e, al momento, ha bisogno sempre di un’altra persona per fare qualsiasi cosa, anche la più banale come bere o tenere una penna in mano. Posta così, la situazione fa decisamente paura ma io cerco di guardare il bicchiere sempre mezzo pieno: Melissa è sorda ma sente! Non cammina ma con un girello speciale va dove vuole! Non parla ma si fa capire benissimo! E ha me. Durante la scuola dell’Infanzia, grazie alla cooperazione di terapisti e maestre, Melissa ha raggiunto tutti gli obiettivi preposti. Con l’impegno di tutti spero che Melissa riuscirà a sorprenderci ancora!
Cosa vede nel futuro di Melissa e cosa in quello di Elisa?
Come si dice? Vivi come se dovessi morire oggi, pensa come se non dovessi morire mai.
Non voglio aspettarmi niente per il futuro, per non farmi male: meglio vivere alla giornata e gioire dei piccoli passi che Melissa compie. Devo accettare che forse il futuro di Melissa forse non sarà poi tanto diverso dal presente. D’altra parte però i progetti per il suo cammino sono tanti: il comunicatore, le cellule staminali, un esoscheletro… grazie alla tecnologia, il futuro di Melissa potrebbe essere migliore di qualsiasi aspettativa!
Per quanto riguarda il mio futuro… Beh, molte delle mie passioni passate, come il teatro o la farmacia, hanno assunto ai miei occhi meno spessore quindi credo che difficilmente, a prescindere dagli impegni di Melissa, riuscirei a ritornare alla mia vecchia vita. Vorrei invece in primis che lo Stato riconoscesse il mio lavoro e mi restituisse la dignità dando anche a me un ruolo ufficiale. E poi… Vorrei riuscire a trovare tempo e forma per mettere tutta questa esperienza a disposizione degli altri, sperando di farli sentire meno soli o facendo da intermediario tra il mondo medico-sanitario e quello della famiglia.
Foto in apertura, Elisa Mazzone con la figlia Melissa.
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