Cultura
Il lavoro culturale è questione di parole e di luoghi
C'è un'idea di cultura che la vorrebbe confinata in spazi dedicati, da consumare nel dopo lavoro e nel tempo libero. Ma è un'idea novecentesca, che non fa i conti con la nuova realtà e impedisce di costruire il futuro: abbiamo bisogno di inventare un lessico condiviso che unisca le nostre pratiche e generi nuove alleanze. Per riabitare lo spazio pubblico
Ad un certo punto del mio percorso, un percorso condiviso con tanti amici, non ultimo Marco Revelli, ho capito che la strada “classica”, novecentesca, per riformare la politica non funzionava più. Bisognava ripartire dalla cultura. Ma che cosa significa “cultura”? Cultura significa parlare, conversare, ragionare.
Cultura significa inventarsi i codici: ritrovare una nuova parola e costruire da quella parola un nuovo lessico. Serve un nuovo vocabolario per avventurarsi nel nostro mondo e la cultura ha un ruolo primario nella sua costruzione.
La pandemia non ha fatto altro che accelerare una crisi già in atto. Il Novecento era già in rovina, i segnali erano forti. Ma anche quando parliamo di “cultura” tendiamo a collocarla dentro nicchie novecentesche: teatro, cinema, libri.
Collochiamo la “cultura” nella cartografia della città industriale, quando ci inventammo i luoghi dove confinarla. La “cultura”, in quest’ottica, era tempo libero e post-lavoro: una cosa che si faceva andando in certi luoghi del “lavoro culturale”, come lo chiamava Luciano Bianciardi.
Dobbiamo prendere atto della crisi del mondo culturale. Un mondo non più pronto a lavorare sul grande tema della cultura messa in crisi nei suoi stessi cardini. Bisogna stare sul bordo, sui limiti, negli spazi in cui il conflitto è ancora possibile.
Abbiamo bisogno di cultura come conflitto, perché dobbiamo sconquassare un mondo che si percepisce ancora legato a luoghi e visioni che non ci sono più. Lo dobbiamo fare per ritrovare parole e pratiche.
Se vogliamo fare “lavoro culturale”, oltre a liberarci di vecchie matrici, dobbiamo rivolgersi al futuro. Avere una visione di futuro, una visione che speri di operare per il bene comune.
Ci sono molti problemi di fondo che dobbiamo affrontare, tra cui uno dei grandi temi è la crisi del pensiero occidentale.
Il pensiero occidentale ha inventato una cosa fondamentale: lo spazio pubblico. Ed è questa "invenzione" che dobbiamo…reinventare.
- Dobbiamo tornare a lavorare su questo tema: che cos’è, oggi, spazio pubblico? La cultura è chiamata a lavorare su questo e a capire quali sono i markers, i “luoghI” che vanno a definirlo. Abbiamo vissuto e ancora viviamo un profondo conflitto tra spazio pubblico e spazio privato, un conflitto che la pandemia ha rimescolato e rilanciato in termini forse non inediti, ma sfidanti.
- Dobbiamo tornare a ragionare sulle forme del sapere comune e collettivo. Veniamo da generazioni abituate a lavorare su un testo, un manuale, una scuola e su quello ci confrontavamo. Apprendevamo collettivamente sulle stesse basi. Oggi i ragazzi arrivano a conoscere in maniera più frammentata, diversa, diluita. Rispetto a una democratizzazione delle fonti e a un accesso libero a quelle fonti è venuto a mancare un centro.
C’è uno smarrimento che è nei luoghi, ma è anche nelle parole. Abbiamo pensato, negli anni, di ritrovare un “centro” servendoci, magari, del modello dei festival. Ma anche questo modello, come ricorda quel maestro burbero che è Goffredo Fofi, si è seduto sugli allori e ha subito, come tutti, la crisi.
Se i festival sono luoghi che servono al compiacimento personale, dove la gente arriva, ascolta e porta a casa qualcosa… non funzionano. Non funzionano perché la sfida è un’altra: come si rianima lo spazio pubblico? Questa è l domanda a cui rispondere.
Dobbiamo farci luogo, non riempire i luoghi di spettacoli e spettatori. Ha detto Marco Martinelli che, nel mondo antico, «i cori erano una sorta di palestra culturale in cui diverse generazioni sperimentavano il teatro come esercizio di cittadinanza. Praticare questo esercizio vitale di cittadinanza è, precisamente, la cultura. Altrimenti diventiamo tutti spettatori e, alla fine, quando cala il sipario non abbiamo fatto ciò che la cultura ci chiede: ridisegnare assieme spazi e pezzi di futuro.
Questo articolo è la trascrizione dell'intervento al convegno "Immaginare il domani" organizzato il 28 gennaio scorso da Vita, in collaborazione con Casa Testori e con la partnership di Fondazione Cariplo, a conclusione del ciclo "La cultura non si ferma".
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