Volontariato

Il Kosovo senza più kosovari

Secondo le organizzazioni umanitarie un abitante su due ha lasciato la sua casa nell'ultimo anno: più di un milione di persone.

di Gabriella Meroni

Sono arrivati a ondate, a piedi, sui trattori, sui muli, sulle poche auto che sono riusciti a portare via dai loro villaggi. Nei loro occhi, prima ancora che nei loro racconti, il terrore delle violenze che hanno dovuto subire in patria. Spaventose violazioni dei diritti umani che si sommano ad anni di persecuzioni, censure, divieti. La popolazione del Kosovo ormai non vive più in Kosovo. Almeno la metà degli albanesi kosovari, cioè circa un milione di persone – dicono i calcoli, approssimativi ma terribili, delle organizzazioni umanitarie – hanno lasciato le loro case nell?ultimo anno, dal quel marzo 1998 che segnò una svolta nei rapporti già tesi tra la Serbia e il Kosovo, tanto da spingere l?Onu a decretare, il 1° aprile, l?embargo delle armi a Belgrado per le sospette atrocità compiute ai danni degli albanesi. Da allora, sostiene l?Alto commissariato Onu per i rifugiati, 440 mila persone sono fuggite all?estero e altre 260 mila si sono allontanate dalle loro case, vivendo in tendopoli nei boschi. Ma dall?inizio dei bombardamenti, il 24 marzo, altri 70 mila profughi si sono riversati in Albania, 15 mila in Macedonia, 35 mila in Montenegro, quasi 5000 in Bosnia, trasformando i già fragili stati dei Balcani in altrettanti vasi comunicanti di disperazione e percorsi senza meta, se non qualche posto oltre il confine. Accogliere le migliaia di profughi privati di documenti e di patria è l?emergenza di questi giorni, piombata su volontari e governi come un ciclone. Nonostante da mesi si paventasse una crisi umanitaria nella delicatissima area dei Balcani, e nonostante dai primissimi venti di guerra tutti si fossero affrettati a mettere in guardia Italia, l?Albania e la Macedonia da una possibile invasione di disperati in fuga. La Caporetto degli aiuti, almeno nella loro prima fase, riguarda tutti, governi in testa. Basti dire che alla riunione del tavolo di coordinamento delle Ong e delle organizzazioni della società civile per l?emergenza profughi, svoltasi a Palazzo Chigi il 30 marzo, era presente soltanto la ministra Livia Turco. Il premier Massimo D?Alema e i ministri dell?Interno, della Difesa e degli Esteri hanno elegantemente dato forfait alle 48 associazioni presenti, anche se occorre sottolineare che Rosa Russo Iervolino era nelle stesse ore volata in Albania, primo ministro europeo a recarsi di persona nella zona ?calda? dell?emergenza umanitaria. Davvero poca cosa, poi, il documento della Protezione civile datato 29 marzo che aveva lo scopo di fronteggiare e organizzare l?accoglienza sulle coste dell?Adriatico (quando è chiaro che l?accoglienza va fatta in loco, cioè in Albania e Macedonia): un semplice foglietto di 30 righe pieno di buone intenzioni e molti verbi al futuro. Di un piano di interventi concreti, nemmeno l?ombra. E allora via con la corsa ai ripari. «Nelle zone di confine con il Kosovo avevamo solo centri di accoglienza, non era stato allestito nessun campo profughi» ci spiega Laura Boldrini, portavoce dell?Acnur, sulla strada che la sta portando a Kukës, nel Nord dell?Albania. «Ora, però, vista l’ondata massiccia di chi fugge siamo costretti a farlo, a fornire teloni in plastica per ripararsi dal freddo clima di montagna. Comunque, in Albania, i nostri centri che ancora non erano pieni sono ormai stracolmi di gente: a Krumë, Kukës, Tirana, Scutari, Burelë. Continueremo a portar via i rifugiati dalla prima linea. Ma presto l’Albania non ce la farà a sorreggere il loro peso». La Macedonia, dal canto suo, dopo aver ricevuto oltre 15 mila profughi negli ultimi giorni che si sono sommati ai 10 mila che già vi si trovavano, ha deciso di chiudere le frontiere. Il governo ha virato decisamente verso una politica di accoglienza momentanea, come ci conferma da Skopije il direttore della Caritas macedone, padre Antonio Sirimotic: «Attorno alla città ci sono 5 centri di accoglienza che ospitavano i profughi della guerra di Bosnia» ci dice lui che, croato, ha accompagnato tanti suoi connazionali nel viaggio più difficile. «Ma il governo non ha permesso che venissero utilizzati per i nuovi profughi kosovari. La maggior parte di loro cerca una sistemazione presso case private, e per questo paga anche un affitto. Noi della Caritas giriamo di casa in casa, ci chiamano per situazioni particolari: un bambino malato, un anziano bisognoso di cure. Questa regione è martoriata. Prima i rifugiati bosniaci, ora questi. So che alla frontiera stanno piantando delle tende, ma non so se basterà». Dal Montenegro, la repubblica federata jugoslava che ha visto arrivare in questi giorni qualcosa come 35 mila profughi, filtrano pochissime notizie. Le agenzie umanitarie hanno dovuto abbandonare il territorio, compreso il Pam che qui aveva la maggior parte dei suoi magazzini alimentari. Gli unici a essere rimasti nel Paese sono i volontari della Caritas yugoslava che gestiscono due piccole strutture di accoglienza nelle città di Bar e Kotor, e i team di emergenza della Croce Rossa. Ad accogliere le migliaia di rifugiati, due soli centri allestiti dall?Acnur, che però a detta degli stessi co-gestori italiani, i volontari dell?Ics, si trovano «in condizioni disastrose». In più, sono già pieni di profughi albanesi rom del Kosovo, i primi ad essere cacciati dai serbi molti mesi fa. La prospettiva più incerta riguarda però gli arrivi futuri, e soprattutto la sorte degli albanesi rimasti in Kosovo. «In Kosovo, almeno per ora, non possiamo entrare» spiega ancora Laura Boldrini dell?Acnur. «Di molti nostri uffici non sappiamo più nulla. Siamo purtroppo ben consapevoli che la gente rimasta entro i confini è quella che ha più disperato bisogno di aiuto. Ma non possiamo fare niente per loro».


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