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Il Kenya, la democrazia a rischio di avidit

Il paese ospitante/ Il governo di Kibaki ha registrato indubbi successi in campo economico. Ma ora è a rischio per il dilagare della corruzione. E degli scandali

di Joshua Massarenti

La questione per il Kenya del XXI secolo è capire se, per colpa di un?avidità privata eccessiva e il crollo del senso civico, i dirigenti del Kenya non rischiano di indebolire il loro controllo sulla società al punto da consentire una ridefinizione popolare della politica». Più che una riflessione, quella di John Lonsdale, storico e africanista dell?Università di Cambridge, dovrebbe sorgere come massima per affrontare la complessità delle sfide che rischiano di minare il modello democratico keniota. Un modello forgiato sullo straordinario esempio fornito dalla classe politica nazionale durante le elezioni generali del dicembre 2002. Smentendo tutti i pronostici che davano per inevitabile un ?bagno di sangue?, il National Rwainbow Coalition (NaRC), una coalizione di partiti dell?opposizione guidata dall?ex ministro delle finanze Kwai Kibaki sconfisse in un clima pacifico e di trasparenza (quasi) assoluta il delfino del presidente uscente Daniel Arap Moi, al potere dal 1978.

Un voto di svolta
La vittoria di Kibaki mise fine a cinquant?anni di dominio assoluto del Kenya African National Union (Kanu), movimento politico fondato nel 1960 dal leader indipendentista Jomo Kenyatta. Assegnando a Kibaki il 63% dei consensi e al NaRC la maggioranza assoluta in sede parlamentare, i kenioti decisero di ?dekanunizzare? un paese afflitto da corruzione e da povertà. Non appena preso possesso degli uffici della State House, Kibaki annunciò un programma politico totalmente votato alla riaffermazione dello Stato di diritto e alla rinascita economica della nazione.

A quattro anni di distanza, il primo regime pluralista della storia del Kenya offre un bilancio in chiaroscuro. Tra le iniziative positive, spiccano una crescita economica tornata vertiginosa (5% nel 2005 contro lo 0,2% nel 2002) grazie alle ottime performance ottenute nei settori dell?orticoltura, del turismo (crollato dopo gli attentati di Mombasa nel 1998 e di Nairobi nel 2002), dell?immobiliare e delle comunicazioni. Di pari passo, il governo keniota ha avviato riforme politiche importanti consentendo a 1,2 milioni di bambini l?accesso gratuito all?educazione primaria e offrendo un minimo di copertura sociale e sanitaria ai cittadini.

Uno su due nella povertà
Nonostante i progressi registrati, il percorso riformista di Kibaki non è stato esente di fallimenti. Oggi come ieri, un keniota su due vive ancora sotto la soglia della povertà; ogni anno, dal 1999, tra 3,5 e 5 milioni di persone sono confrontate al rischio siccità senza che il regime riesca a fronteggiare l?emergenza; le tensioni che di conseguenza oppongono gli agricoltori e i coltivatori alla disperata ricerca di acqua e terre da pascolo sono sempre più frequenti; pari modo, i 2,5 milioni di kenioti immersi nella miseria delle bidonville di Nairobi sono bombe sociali ad orologeria che il governo non sembra riuscire a disinnescare.

Su tutto però, primeggia l?incapacità del NaRC a combattere efficacemente la corruzione e a riformare la costituzione. Su quest?ultimo fronte, Kibaki ha responsabilità pesanti. Il no espresso dal 57% dei kenioti al referendum costituzionale del 21 novembre 2005 suona come un monito ai tentativi di diversione portati avanti dal presidente della Repubblica, responsabile assieme al suo partito (il National Alliance Party of Kenya, Nak) di aver sostituito il progetto costituzionale elaborato sulla base dei lavori della ?Commissione di revisione della costituzione del Kenya? (protagonista a sua volta di una vasta raccolta di opinioni presso la popolazione keniota) e della successiva proposta formulata dalla Conferenza nazionale costituzionale.

In altre parole, anziché confrontarsi con una bozza che prevedesse la carica di un primo ministro con eguali poteri rispetto al capo di Stato, gli elettori hanno dovuto esprimersi su un testo che ?de facto? riconfermava una repubblica presidenzialista. Oltre al ?no?, la sconfitta di Kibaki si è concretizzata con l?implosione della coalizione di governo e il conseguente rinvigorimento dell?opposizione capeggiata dall?ex partito unico. In vista delle elezioni del 2007, non è una buona notizia. Anzi, a mettere in dubbio la riconferma di Kibaki sono le sue politiche (parzialmente) fallimentari in tema di lotta contro la corruzione.

Dopo le rivelazioni nel dell?ex consigliere governativo John Githongo relative allo ?Scandalo Goldenberg?, società che attraverso finte esportazioni di oro e diamanti avrebbe permesso l?appropriazione indebita di un miliardo di dollari di fondi pubblici durante gli anni ?90 (sotto l?era Moi), Kibaki ha costretto tre dei suoi ministri alle dimissioni. In precedenza, Usa e Regno Unito avevano sospeso i loro aiuti economici al governo per scarso impegno contro la corruzione stimando che essa è costata al Kenya un miliardo di dollari dal 2002, pari a un quinto del budget nazionale.

La piaga corruzione
La corruzione è una piaga difficilmente sradicabile, le cui origini riposano sul sistema di redistribuzione keniota delle prebende che, a secondo dei periodi, ha favorito determinate produzioni agricole e quindi determinati territori ?politici?. Sotto Kenyatta, il potere privilegiava le aree situate al di sopra dei 1500 metri, mentre Arap Moi ha favorito le zone cerealicole. Ora, il processo di liberalizzazione economica attuato negli anni Ottanta ha mandato in rovina alcune produzioni come il granoturco e lo zucchero che consentivano ai funzionari pubblici vicini a Moi di accumulare soldi e poteri attraverso la rendita agraria. Nel decennio successivo, l?ex presidente keniota ha deciso di privarsi dell?appoggio di questi funzionari spingendoli nella morsa dell?economia criminale, ovvero l?uso privato della violenza di Stato e la corruzione. Un cancro, quest?ultimo, che Kibaki non riuscirà a estirpare dal corpo malato dell?amministrazione fino a quando a non migliorerà la sorte dei funzionari pubblici.

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