Welfare
Il grande boom dei voucher per il welfare
I buoni utilizzati per pagare prestazioni in ambito sociale e culturale sono decuplicati in appena sei anni. Un trend destinato a proseguire
L’onda lunga dei voucher in veste anche Comuni e Terzo settore. È boom del lavoro occasionale accessorio nel settore delle manifestazioni caritatevoli, culturali, sportive e fieristiche: gli ambiti di impiego dei buoni lavoro più vicini al welfare municipale e alle attività del non profit.
I numeri dei tagliandi venduti per le iniziative di solidarietà non sono quelli a due cifre che si registrano nei settori del commercio, turismo e servizi (115 milioni nel complesso delle attività d’impiego l’anno scorso), ma sono tutt’altro che trascurabili. Secondo gli ultimi dati dell’Inps, nel 2015 sono stati acquistati 4,4 milioni di voucher: pari a un ammontare di 44 milioni di euro.
Ogni buono infatti ha un importo di dieci euro e corrisponde al compenso minimo di un’ora di prestazione. Numeri che raddoppiano se si considera che altri 4,9 milioni di buoni sono stati comprati per i lavori di giardinaggio, anche questa un’attività svolta abitualmente dai municipi e dalle cooperative sociali di inserimento lavorativo.
Se si esamina la distribuzione territoriale dei voucher per gli eventi sociali e culturali si scopre che a farla da padrone è il Nord con 3 milioni di “assegni”. Nel dettaglio, la regione che compra più voucher è la Lombardia (1 milione), seguita dal Piemonte (588mila) e Veneto (550mila). I buoni, introdotti nel 2003 per regolamentare le prestazioni lavorative saltuarie che non sono riconducibili ai contratti di lavoro tipici, negli ultimi anni hanno messo a segno una crescita esponenziale. In particolare, i voucher venduti per le manifestazioni caritatevoli e culturali sono decuplicati passando da 450mila nel 2009 a 4,4 milioni l’anno scorso.
Ma chi sono appunto i committenti? L’Inps al momento non è in grado di distinguere in base alla natura giuridica. Basta tuttavia navigare fra i siti dei municipi per scoprire che da Nord a Sud gli albi pretori online pullulano di regolamenti. Si va dal Comune di Cefalù in provincia di Palermo che lo scorso aprile ha reso noti i termini per la creazione di un elenco di operatori da impiegare per l’apertura e la fruizione dei beni culturali e turistici a quello di Carpiano nel milanese che a febbraio ha emanato un bando per reclutare personale disposto a occuparsi del doposcuola per i minori e a impegnarsi in lavori di solidarietà nell’ambito dei servizi sociali. Nella maggioranza dei casi i destinatari dei voucher sono cittadini con basso reddito, cassintegrati, disoccupati oppure studenti e pensionati. Variano da città a città sia le somme assegnate per lavoratore, da poche centinaia di euro a 3mila euro (7mila euro il tetto massimo per legge), sia i criteri di valutazione delle domande. Se Pompei nel Napoletano assegna punteggi in base alla composizione del nucleo familiare, all’Isee, ai titoli di studio e all’esperienza lavorativa, Vasto in provincia di Chieti prende in esame anche l’abitazione e la condizione coniugale dei richiedenti. «I voucher sono uno strumento di welfare generativo: i Comuni per rendere più produttivi gli interventi sociali trasformano il sostegno economico in ore di lavoro utili per la città. Così il cittadino debole non si sente più un assistito ma una persona che restituisce alla comunità il contributo ricevuto», spiega Franco Pesaresi, esperto di politiche sociali e direttore dell’Azienda di servizi alla persona “Ambito 9” delle Marche. Mentre prima, insomma, gli enti locali concedevano soldi senza reclamare nulla in cambio oggi chiedono ai beneficiari dei buoni lavoro di collaborare alla pulizia dei giardinetti pubblici o di tener aperta la biblioteca.
C’è però un risvolto negativo. «Si perdono un po’ di risorse sociali. Su 10 euro stanziati dal Comune, al cittadino ne arrivano 7,50», fa notare Pesaresi. I restanti 2,50 euro vanno infatti alla gestione separata dell’Inps (1,30); all’Inail (0,70) e al gestore del servizio (0,50). C’è poi un secondo punto debole: sono ancora pochi i Comuni che riconoscono al non profit il ruolo di tutor o di soggetto attuatore delle iniziative sociali realizzate con i buoni. L’esperienza più significativa è “Reciproca solidarietà e lavoro accessorio”, l’iniziativa della Compagnia di San Paolo di Torino che coinvolge i cittadini in difficoltà economica in attività di cura della comunità promosse dagli enti senza fini di lucro. Dal 2010 al 2016, la Compagnia ha stanziato 18,5 milioni di euro di contributi per i buoni. Mille i prestatori coinvolti, 200 le organizzazioni del Terzo settore committenti. «Si tratta di un’iniziativa a valore netto perché il cento per cento delle risorse è destinato direttamente ai beneficiari finali. Comuni e non profit mettono a disposizione il proprio lavoro senza ricevere contributi aggiuntivi», spiega Daniela Greganin, coordinatrice per l’Inclusione sociale della Compagnia.
Ma chi sono i prestatori pagati con i voucher? Secondo l’Inps l’anno scorso sono stati 42.894. In maggioranza uomini (55%) e cittadini comunitari (94%), dunque in maggioranza italiani; hanno meno di trent’anni. Per l’esattezza il 23% ha fra 20 e 24 anni, il 19% fra 25 e 29 anni. Interessante anche il dato che si ricava sul numero medio di voucher per lavoratore: 64 buoni, pari a 640 euro annui (480 euro netti).
Last but not least, dai dati dell’Inps emerge uno scarto notevole fra i voucher acquistati dai committenti (4,4 milioni) e quelli effettivamente riscossi dai prestatori (2,7 milioni). Secondo l’interpretazione più benevola dipenderebbe dal fatto che non tutti i voucher prenotati sono poi utilizzati nello stesso anno solare. Secondo quella più malevola i buoni invece sarebbero tenuti pronti dai datori di lavoro per tirarli fuori in occasione di ispezioni o di infortuni. Ipotesi che il recente decreto sulla cosiddetta “tracciabilità” dei voucher mira a scoraggiare.
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