Forse è solo un equivoco, o magari una schermaglia in una fase molto delicata della riforma del terzo settore che vede l’impresa sociale al centro dell’attenzione. Un passaggio chiave per consolidare e insieme rilanciare questo modello d’impresa secondo logiche di pluralismo e diversificazione affinché possa rispondere in modo nuovo a sfide di più ampia portata, operando in sfere d’azione diverse e interconnesse. Basti pensare alle implicazioni multilocali che caratterizzano l’accoglienza dei migranti, la tutela dell’ambiente, gli stessi servizi di welfare. C’è quindi una duplice (e complementare) questione di fondo: focalizzare meglio la domanda e attivare risorse consistenti e differenziate per rispondervi. Questioni quasi banali da formulare, ma molto complesse nelle loro implicazioni gestionali e di politica, soprattutto quando si tratta di fare il famigerato matching tra domanda e offerta.
E’ qui che si evidenziano gli equivoci, spesso in forma di correlazioni inverse (tradeoff) tra tendenze sociali e mobilitazione di risorse. In particolare gli obiettivi di giustizia sociale per ridurre le disuguaglianze vengono correlati alla redistribuzione di risorse per via pubblica e filantropica. Redistribuzione che, va notato, spesso avviene attraverso il medium di mercato rappresentato dalle esternalizzazioni della Pubblica Amministrazione. Un paradosso che si acuisce considerando che le organizzazioni concorrenti condividono finalità assimilabili a quelli della “stazione appaltante”.
Ma la vera novità è la quota crescente di risorse a investimento che si concentra soprattutto sul lato dell’offerta. Un’opzione, quella dell’investimento sociale, vista a volte con sospetto perché portatrice di una rappresentazione del settore sociale che enfatizza la dimensione di risultato ed è monopolizzata dall’attore finanziario. La finanza è infatti l’attore principe quando si tratta di investire, sia per capacità di raccogliere risorse sia per l’egemonia politico culturale non nel campo economico ma ora anche in quello sociale. E così si rafforza il tradeoff che postula una divaricazione tra principi guida vs strumenti, con le risorse finanziarie che sono fuori missione (mission driven) rispetto a obiettivi di interesse generale. Una correlazione fin troppo facile considerando quanto successo negli ultimi anni, ma che gli sviluppi recenti mettono, almeno in parte, in discussione.
La leva finanziaria dell’investimento sociale è fatta di tanti strumenti – ricorda Mario Calderini – accomunati dall’esigenza di generare (e rendicontare) un ritorno su risultati (outcome) riferibili proprio a elementi di valore sociale (inclusione soprattutto). Inoltre potremmo aggiungere che l’investimento finanziario è spesso completato e arricchito da risorse di natura donativa e non economica, come insegnano le tendenze recenti della filantropia e, più in generale, strumenti come il crowdfunding attraverso il quale si mobilitano risorse da una molteplicità di soggetti veicolandole (in forma di donazione, ma non solo) verso iniziative che presuppongono una certa assunzione di rischio tipica dell’investitore. Risultato: tutti possiamo essere impact investor anche con poco denaro in tasca.
Foto Giulio Boem
Ora che il terzo settore è divenuto corpo sociale dopo una lunghissima fase istituente e che ha riportato nel suo alveo l’impresa sociale, può quindi accettare la sfida dell’investimento sociale per rispondere di più e meglio alle sfide che sostanziano la sua missione. In particolare seguendo due percorsi.
Il primo è il contributo all’economia fondamentale, cioè a tutte quelle produzioni che incorporano elementi di coesione e di sostenibilità come dato costitutivo e non semplicemente come correttivo rispetto a esternalità negative del mercato o complemento residuale alla redistribuzione pubblica. E’ un tema rilevante non solo per il terzo settore ma per segmenti sempre più ampi dell’imprenditoria in generale, dopo anni in cui ha prevalso il modello dell’estrazione del valore per massimizzarlo e concentrarlo nelle mani di pochi. Un percorso ricostruito in un interessante volume curato, tra gli altri, da Filippo Barbera che definisce i fondamentali di una nuova economia dopo decenni in cui anche nei settori che producono beni e servizi di interesse collettivo su scala locale a dominare è stata l’economia estrattiva. Si può essere più o meno d’accordo rispetto alla lettura che viene proposta nel libro sulle modalità e sull’entità della depauperazione del tessuto sociale ed economico – servizi sociali compresi – ma è evidente che si sta formando una nuova base di legittimazione su cui poggiano molte delle esperienze di impresa sociale evocate in un bel post di Roberto Covolo. Esperienze nate come agenti di cambiamento e che oggi sono chiamate a diventare grandi sia nella gestione che nella proposta politica, pena il rischio della marginalità con buona pace per l’impatto. L’investimento sociale da questo punto di vista non può che rappresentare la risposta, agendo in particolare il suo carattere sistemico. Un tratto ben visibile, ad esempio, nell’operazione di salvataggio del Birrificio Messina. Un recupero in senso comunitario (community buy out) di una risorsa fagocitata dall’economia estrattiva ma che ora ritorna al territorio come economia coesiva, grazie a risorse – soprattutto finanziarie – di investimento provenienti da diversi attori e che tengono la barra dritta alla giustizia sociale, anzi che consentono di realizzarla con maggiore impatto.
Il secondo passaggio è la riforma dei beni pubblici secondo una logica che, anche in questo caso, riposiziona la componente di mercato che è stata (ed è) oggetto di meccanismi estrattivi come le gare d’appalto al massimo ribasso economico. L’enfasi sul “comune” che caratterizza soprattutto i progetti di rigenerazione di immobili per finalità d’uso collettivo intercetta una domanda di partecipazione che non è solo adovcacy, ma economia e impresa come ricordano Matteo Serra e Paolo Venturi su Collaboriamo. E’ un passaggio che, ancora una volta, richiede un intervento consistente e lungimirante di risorse di investimento per far crescere economie fondamentali in grado di scalare sperimentazioni fin qui localizzate, intercettando la domanda di socialità che in questi spazi può trovare espressione e l’offerta crescente di beni immobili in cerca di una nuova destinazione d’uso. Non sono semplicemente avanzi di mercato o residuati pubblici, ma fulcro di una politica industriale dove “sofferenze” e “incagli” che oggi segnano, in negativo, i bilanci degli enti locali e i listini borsistici degli istituti bancari diventano asset (comunitari) per nuove politiche di sviluppo.
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