Volontariato

Il gioco da non giocare. L’ossimoro della “vittoria” nucleare

di Pasquale Pugliese

Strano gioco. L’unica mossa vincente è non giocare.

Che ne dice di una bella partita a scacchi?

[Joshua, Wargames. Giochi di guerra,1983]

Dall’alto dei 101 anni Edgar Morin ha reso sempre più essenziali e incisive le sue riflessioni, come quelle raccolte nell’ultimo libro tradotto anche in italiano poche settimane fa dal titolo eloquente “Svegliamoci!” (Mimesis, 2022), nel quale riassume i molteplici risvegli dal sonnambulismo necessari per la resistenza contro le “gigantesche forze della barbarie”, tra le quali quelle della minaccia atomica:

Dopo le ecatombi di Hiroshima e Nagasaki, la minaccia si è ingrandita e amplificata: nove nazioni, alcune delle quali tra loro ostili, si sono dotate di armi nucleari e nel complesso dispongono di un arsenale nucleare di più di tredicimila bombe. Altrettante spade di Damocle che pendono sopra otto miliardi di teste.
Da quel momento il progresso scientifico ha rivelato la sua terrificante ambiguità. La scienza più avanzata è diventata produttrice di morte per ogni civiltà. La razionalità scientifica ha mostrato il suo volto irrazionale. Il progresso della potenza umana è sfociato nell’impotenza umana di controllare la propria forza. Ma tutto questo è come anestetizzato dal sonnambulismo generale della nostra vita quotidiana.

Hiroshima e Nagasaki rappresentano uno spartiacque definitivo nella storia dell’umanità, dopo il quale – come hanno già ampiamente spiegato, tra gli altri, Bertrand Russell e Albert Einsten nel loro celebre Manifesto del 1955 e Günther Anders in gran parte della sua produzione filosofica (qui le Tesi sull’età atomica) – non è più possibile alcuna retorica della “vittoria” associata alle guerre, perché ormai la guerra stessa è nemica dell’umanità. Nonostante la toponomastica delle nostre città sia ancora tristemente ridondante di piazze e vie dedicate a quella “Vittoria” che fa riferimento alla “inutile strage” (come fu definita da papa Benedetto XV) della prima guerra mondiale, contribuendo a colonizzare militarmente l’immaginario, mitico e magico, dell’illusione che i conflitti si possano “risolvere” ancora con le guerre – secondo l’obsoleto paradigma si vis pacem para bellum (se vuoi la pace prepara la guerra) – oggi più che mai invece sappiamo che “l’unica mossa vincente è non giocare”. E’ quanto dice il calcolatore elettronico Joshua, nel film cult Wargames. Giochi di guerrra del regista John Badham, di fronte all’imminente “guerra termonucleare totale”: non giocare più quello “strano gioco” della guerra in cui non ci possono essere vincitori e cambiare gioco (facendo probabilmente riferimento alla Teoria dei giochi di John von Neumann, Oskar Morgerstern e John Nash). Come del resto afferma tra i Principi fondamentali – solennemente e responsabilmente – la ormai ripetutamente ripudiata Costituzione della Repubblica italiana. Poiché con l’avvento delle armi nucleari nelle guerre non possono più esserci vincitori, la vittoria è un ossimoro apocalittico: l’esito non può che essere la “mutua distruzione assicurata”. MAD si diceva un tempo, l’acronimo significa “folle” in lingua inglese.

Eppure – come avvertono, inascoltate, le organizzazioni per la pace fin dall’inizio di questa nuova fase di guerra in Ucraina, avviata con l’invasione russa dello scorso febbraio – l’escalation nucleare, sempre incombente in questa guerra che vede fronteggiarsi sul territorio ucraino le due massime potenze nucleari, si sta spaventosamente materializzando in questi giorni con dichiarazioni sempre più minacciose, da entrambe le parti in conflitto. Dalla (di lì a poco) nuova premier britannica Liz Truss che il 22 agosto, alla precisa domanda sull’eventualità di doversi trovare ad impartire l’“ordine di scatenare armi nucleari [che] significherebbe l’annientamento globale”, ha risposto “sono pronta a farlo”, a Joe Biden che il 17 settembre metteva le mani avanti dicendo che ad un eventuale uso russo dell’arma atomica la risposta USA “sarebbe consequenziale”, allo stesso Vladimir Putin che il 21 settembre (Giornata internazionale della pace…) ha minacciato l’uso di “tutti i mezzi militari a disposizione per difendere il Paese e il popolo russi”. I metaforici cento secondi che ci “distanziavano” (si fa per dire) dalla mezzanotte nucleare lo scorso gennaio, secondo le previsioni del Bollettino degli scienziati atomici, stanno adesso scorrendo velocemente nell’”Orologio dell’apocalisse”. E nessuno, nascondendosi dietro l’illusione che siamo difronte a dei bluff, può continuare a rincorrere follemente l’ossimoro della vittoria, alimentando l’escalation bellica, anziché percorrere la via ostinata e lungimirante della mediazione a oltranza tra le parti per costruire la pace.

Le minacce nucleari sono sempre “un bluff” fino al giorno in cui, improvvisamente e drammaticamente, non lo sono più” – dice Beatrice Finn, coordinatrice della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, intervistata da Francesco Vignarca (Altreconomia , 24 settembre 2022) – “E nessuno può dire davvero dove sia il confine tra il bluff e la realizzazione della minaccia. Ecco perché queste nuove minacce, sempre più aggressive, di usare le armi nucleari sono così pericolose. Abbassano la soglia dell’uso del nucleare e aumentano notevolmente il rischio di un conflitto con queste armi, e di una conseguente catastrofe globale. Non possiamo “normalizzare” queste minacce e far finta di niente: è estremamente pericoloso e irresponsabile.

Ciò che serve urgentemente, invece, a tutti i livelli è la capacità di agire secondo il principio di responsabilità, dimenticato colpevolmente dai governi, come l’azione che – proprio dalla Russia sovietica – ha salvato l’umanità nello stesso anno in cui usciva nelle sale il film Wargames, quando il 26 settembre del 1983 il tenente colonnello Stanislav Petrov ha interrotto gli automatismi della follia. E’ una storia quasi sconosciuta quella del tenente colonnello Petrov che quella notte di settembre era di turno – per la sostituzione di un collega – ai calcolatori che sorvegliavano lo spazio aereo sovietico, quando sullo schermo si accesero alcune spie luminose: significava che un grappolo di missili nucleari erano in arrivo dall’Occidente. Il protocollo prevedeva l’immediato contrattacco massiccio da parte sovietica, che avrebbe provocato un altrettanto attacco massiccio occidentale. Eravamo nel pieno della “guerra fredda”, con i falchi Ronald Reagan e Jurij Andropov a capo della Casa Bianca e del Cremlino, e solo venticinque giorni prima, il primo settembre, altri militari russi – seguendo le procedure – avevano abbattuto un jumbo jet coreano con 269 persone a bordo che era entrato nello spazio aereo dell’Urss. Stanislav Petrov, invece, non seguì il protocollo, usò la coscienza anziché la procedura, non delegò alle gerarchie, ma pensò con la sua testa. Pensò che si potesse trattare di un’avaria del sistema e non avviò alcun dispositivo di risposta. Non giocò, assumendosene la responsabilità, un gioco a somma negativa che avrebbero scatenato l’apocalisse, nella quale nessuno sarebbe risultato vincitore. Quella notte il tenente colonnello salvò l’umanità, ma non ebbe alcuna medaglia, anzi fu man mano accantonato, pensionato e dimenticato. E’ morto in solitudine alla periferia di Mosca a 78 anni, nel 2017. In memoria di quell’evento, le Nazioni Unite – già dal 2014 – il 26 settembre celebrano la Giornata internazionale per l’abolizione della armi nucleari. Giornata che aspetta ancora la sottoscrizione del Trattato internazionale – peraltro già in vigore – per la proibizione delle armi nucleari, da parte delle potenze nucleari. E anche del nostro Paese, che non è “potenza” ma target di un possibile attacco nucleare, grazie alle testate USA “ospitate” nelle basi di Aviano e Ghedi.

Per quanto distratti dalle elezioni italiane, che sostanzialmente hanno rimosso il tema della guerra, stiamo attraversando un varco della storia ancora più grave e pericoloso del 1983, dal quale possiamo uscire solo con lo stesso senso di responsabilità del tenente Petrov e dei tanti obiettori di coscienza e disertori che in queste settimane rifiutano in Russia, in Bielorussia e in Ucraina l’arruolamento per questa folle guerra nel cuore dell’Europa. Rifiutando anch’essi di giocare un gioco che non può avere vincitori, chiedendo alla comunità internazionale di sostenere la loro disobbedienza civile – come fa la campagna internazionale Object war – anziché inviare armi ed armati sul fronte, in una folle e reciproca retorica della vittoria che alimenta l’escalation nucleare e la sconfitta di tutti. Il tragico ossimoro, al quale – se non ci fermiamo in tempo – non resteranno piazze e strade in Europa, e forse nel mondo, da potervi dedicare.

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