Tra le altre cose le panchine favoriscono il tele-trasporto. Sediamo assorti in un parco, solleviamo gli occhi e, all’improvviso, ci troviamo in un altro mondo. In uno dei capolavori di Philip Dick, La svastica sul sole, il protagonista scivola da una panchina in un contro-presente-alternativo nel quale le forze dell’Asse, i nazisti e i loro alleati, sono usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale. Dove sono i taxi a pedali oggi? si chiede il signor Nabosuke Tagomi, osservando con autentico sgomento il traffico di San Francisco, i palazzi grigi, la superstrada, i marciapiedi percorsi soltanto da uomini bianchi.
Qualcuno potrebbe obiettare che quella degli universi paralleli è una teoria da quattro soldi, un’invenzione della fantascienza. Niente di più sbagliato. L’ha sperimentato l’anno scorso sulla propria pelle uno studente di 27 anni giunto a Torino dal Camerun con una borsa di studio e regolarmente iscritto alla facoltà di Ingegneria delle telecomunicazioni al Politecnico, quando, per sostenere le spese delle tasse, ha deciso di andare a lavorare per qualche mese nelle campagne pugliesi.
Ho avuto la fortuna di ascoltare dal vivo il resoconto di quell’avventura in occasione del festival del documentario di Lecce, precisamente durante il tragitto che separa l’aeroporto dall’albergo del centro dove eravamo entrambi diretti. Quello che mi ha colpito del racconto di Yvan Sagnet, non erano tanto i dati, le circostanze che riportava con precisione. Mi ha sorpreso piuttosto la partecipazione con la quale ha rivissuto davanti a due perfetti sconosciuti, l’autista e il sottoscritto, lo stupore che si prova quando si varca la soglia di un altro mondo. Ad ogni passaggio il tono della voce si impennava, vibrava insieme a tutto l’abitacolo, gli occhi sprizzavano braci di indignazione. Mettiamoci nei suoi panni: hai avuto la fortuna di sbarcare sulla Luna, la frontiera della democrazia, dei diritti umani, del progresso. Ti sei immerso per anni nella magia dei cavi telefonici, delle fibre ottiche, delle comunicazioni satellitari… Poi, tutto a un tratto, va via la luce e ti risvegli nella capanna dello zio Tom, davanti a uno dei due cessi che servono i 400 lavoratori di una masseria di Nardò, tutti neri come te. Tre ore di fila per una doccia dopo aver raccolto pomodori dalle tre del mattino alle sei di sera, agli ordini di un caporale che trattiene buona parte del tuo misero stipendio a cottimo. E per un attimo pensi di essere finito nell’universo laterale del Generale Robert Lee nel preciso momento in cui l’armata della Virginia schiavista ha sconfitto le truppe di Lincoln e Grant
Nel romanzo di Dick, una volta scoperto l’arcano il signor Tagomi riesce a riguadagnare velocemente la panchina e se ne torna da dove è venuto, al ventesimo piano del Nippon Times Building che domina la baia di San Francisco. Yvan invece non ha panchine su cui sedersi, al massimo casse di pomodori, sedie rotte, carcasse di divani piovuti dal cielo. In pochi giorni si mette alla testa della rivolta di Nardò, denuncia i caporali, organizza il primo sciopero nella lunga stagione di sfruttamento dei lavoratori immigrati, inizia a collaborare con i sindacati. La sua idea è semplice: la battaglia deve e può essere vinta nei campi, coinvolgendo innanzitutto gli immigrati. E poiché la realtà supera l’immaginazione, in tanti cominciano a dargli perfino ascolto. Dopo aver varato il reato di caporalato, il governo – è storia di questi giorni – dà ai lavoratori sfruttati la tutela indispensabile per poterlo mettere pratica: chi denuncerà il caporale otterrà un permesso di soggiorno di sei mesi, rinnovabile.
Naturalmente la strada da percorrere è ancora lunga. Nel parlamento c’è già chi grida allo scandalo e tuona contro il decreto. E’ una sanatoria mascherata, dicono a gran voce. Ma non sembrano minimamente turbati dal fatto che in Italia circa 400 mila persone continuino a vivere in condizioni di schiavitù alla luce del sole.
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